Fino al 15 ottobre è in scena al teatro Argot studio DALL’ALTO DI UNA FREDDA TORRE, spettacolo con cui il teatro in via Natale del Grande, a Trastevere, ha aperto la sua ricca e interessante stagione teatrale. Testo di Filippo Gili. Regia di Francesco Frangipane.
DALL’ALTO DI UNA FREDDA TORRE è uno spettacolo che va visto. “Qual è il tempo dell’istinto?” Tre secondi? Un millesimo di secondo? Un istante, passato il quale subentrano ragionamenti, sensi di colpa, riparazioni, aggiustamenti…E se poi ci dovessimo trovare a dover prendere la decisione che segnerà per sempre le sorti di chi resta e di chi va?
Un gioco dell’immaginazione, come argutamente introduce nei primi dialoghi l’autore, per metterci di fronte ad un incipit che dichiara in parte i suoi intenti: “L’immaginazione implica responsabilità”. Non è La scelta di Sophie, in cui il gerarca nazista lascia giusto appunto il tempo dell’istinto, per far scegliere alla madre chi, tra i due figli, salvare e chi far inghiottire dal buio. Il punto è il dopo. Cosa si salva dopo. È un confronto schiacciante con l’etica, l’etica personale, familiare sì, ma il confronto appassionato con i medici, nel dramma, inchioda l’individuo ad una responsabilità anche pubblica, e ad un dialogo tra ragione e sentimento. Può la ragione, con i suoi criteri matematici e logici, farci superare l’impasse del dilemma più radicale, come quello che si presenta nel dramma? Può fare da contraltare all’ insindacabilità del destino?
Gli attori sono straordinari nella loro naturalezza, credibilità, anche laddove i toni diventano estremi nell’espressione del dolore e nel tormento dell’irresolutezza. Non ci sono grandi e piccole parti in questa messa in scena, sono tutti attori profondamente calati nel loro personaggio. A rendere ancora più commoventi e acuti i momenti di intensa drammaticità, è la recitazione misurata e ricercata di Ermanno De Biagi e l’interpretazione raffinata di Michela Martini. I toni più alti e più accesi sono affidati, e ben sostenuti, a Vanessa Scalera e Aglaia Mora che interpretano personaggi volitivi e passionali, rispettivamente della figlia e del medico. Anche la recitazione di Massimiliano Benvenuto è intensa e contenuta. Matteo Quinzi interpreta un medico particolarmente credibile, che improvvisamente si spoglia del camice per parlarci da uomo, commuovendoci.
Degli interpreti si apprezza in particolare la capacità di creare un ambiente intimo, familiare, in cui far sentire gli spettatori quasi degli astanti indiscreti. Sanno ricreare la gestualità propria dei legami familiari, spontanea, a volte goffa, spalle curve, sguardi per dire e sguardi per non dire, lo sguardo di sbieco e quello carico di amore incondizionato. Una messa in scena intima, raccolta, gesti ripetivi e quotidiani: versarsi l’ acqua, ripiegare il tovagliolo, sbucciare il mandarino. Tutto intorno a un tavolo, in cui abbiamo davvero l’impressione che sia il tempo ad essere fermo e noi, invece, a passare, trascorrere. Noi, gli individui che si fingono immortali, perché rinnegano persino il tema della morte, come se bastasse non parlarne per non farlo esistere. Invece qui se ne parla. Si parla della morte: quella ipotetica, quella naturale, perché un giorno semplicemente verrà, e la morte reale contingente, quella che talvolta implica delle scelte.
Il regista riesce, con abilità, a frammentare lo spazio scenico per creare linearità, in una discontinuità di tempo e di luoghi.
Il pubblico avvolge la scena, assiste, lì insieme ai personaggi, ad un passo dall’uva sul tavolo, o dalla crostata nel piatto, allo svolgersi dell’incredibile, dell’improbabile fino all’inverosimile. In questo ricreare l’intimità familiare, sembra che si sia, sì, costruita una quarta parete, ma che poi, infine, le pareti siano state abbattute tutte.
Come tutti i drammi che colgono e riflettono la complessità dell’esistenza umana, dei legami, ma anche del destino solitario dell’individuo, in questo testo Filippo Gili costruisce una realtà familiare sfaccettata e ambivalente. I dialoghi sono arguti, scoppiettanti, ci sembra di essere calati, da spettatori, nelle nostre reciproche famiglie: i modi di dire, le allusioni, i rimbrotti, le prese in giro, i limiti. Sì, questo testo ha il pregio di dire tanto, ma non troppo, perché poi, si sa, a un certo punto, e non sappiamo mai quale sarà, le parole si fermano, arrancano e non ci assistono più per dire.
Il testo di Gili ha il grande valore di costruire dialoghi quotidiani, ma mai banali, di far comunicare i personaggi anche quando non sanno come dire, perché è poi questo il flusso vero del pensiero che riusciamo a condividere; sa ricreare i dialoghi delle parole “tanto per dire”, e quei momenti magici, inaspettati, in cui si regala all’altro una profonda verità di se stessi, nascosta da una vita.
Non ci si spaventi, dunque, la drammaticità del tema: la bravura, la scioltezza e le emozionanti interpretazioni degli attori, strappano sorrisi e commozioni senza soluzione di continuità.
Info:
DALL'ALTO DI UNA FREDDA TORRE
Dal: 10/10/2017 – al: 15/10/2017
Teatro Argot Studio – Roma
Ore 20:30
di Filippo Gili
regia Francesco Frangipane
con Massimiliano Benvenuto, Ermanno De Biagi, Michela Martini, Aglaia Mora, Matteo Quinzi e Vanessa Scalera