È stato un inizio di stagione scoppiettante quello che il teatro Studio Uno ha offerto ai suoi (speriamo) sempre più numerosi affezionati, che affollano con ostinata e ben riposta fiducia uno degli avamposti off più interessanti del panorama romano. Vi raccontiamo quello che abbiamo visto finora nella Casa del teatro indipendente, in attesa dello spettacolo di stasera COSì FAN TUTTE da Mozart e Da Ponte ai Tre Barba, a firma di Lorenzo De Liberato che si pone come una riflessione sull'opera lirica fino al 25 novembre.
Ci confondiamo spesso, noi di Gufetto, con la folla mormorante di spettatori di questo teatro, nel piccolo giardinetto che divide i due spazi scenici, la “Sala Specchi” e la “Sala teatro” osservando il piccolo mondo di appassionati del teatro indipendente che sfuggono sempre di più ad una caratterizzazione univoca o ad un legame specifico con le compagnie (affettivo o di parentela), e si palesano vagamente curiosi in questi spazi colmi di oggetti particolari, libri, discussioni e conversazioni su spettacoli di altre compagnie o su spazi ancora vivi nella capitale. Un pubblico mosso a curiosità, affetto e vicinanza a quella o all’altra Compagnia, o a quel genere, a quella storia che si materializza, a volte con pochi mezzi ma con tanto cuore e soprattutto tanta qualità, nei due palchi dove a stento, ormai, si trova posto e non soltanto alla Prima.
Mossi da questo impulso di lasciarci trascinare dalle Storie e da come il teatro le trasforma e le trasfigura, siamo andati a vedere “FIGLIO DI BAKUNIN” riadattamento di Marco Usai, (indimenticato “Straniero” della scorsa stagione, e di passaggio al Trastevere coi brechtiani Cavalieri Mascherati); un testo del giornalista Sergio Atzeni (“Passavamo sulla terra leggeri” fra gli altri testi più famosi), trasposto anche in film negli anni ‘90 (regia di Gianfranco Cabiddu, con Renato Carpentieri e Fausto Siddi) e di cui qui si mantiene pressoché inalterato l’intreccio di fondo legato al mondo contadino sardo, intriso di quel comunismo misto ad anarchia degli anni ’30 che rintraccia nel calzolaio e poi minatore Tullio Saba, l’emblema di un anelito di libertà e ribellione ai cambiamenti economici e culturali di una classe proletaria tutta che vede nel capitalismo un’entità senza scrupoli che non ha remore a calpestare la dignità del lavoratore cui priva addirittura le scarpe più adeguate per scendere in miniera.
Centrale l’attenzione di Usai nel vagheggiare questo personaggio, lasciandolo per lo più raccontare dai tanti personaggi che vengono intervistati da un giornalista in cerca di una Storia.
E più lo spettacolo procede, più lo sfocamento (ma non la dimenticanza) del personaggio nella memoria collettiva, così come dell’ideale libertario incarnato, si fa centrale, diventa palpabile, vive solo nei ricordi e non nelle ossa degli attori, diventa anelito frustrato, ricordo che non si può cancellare.
In scena un affiatato quartetto di attori, Marco Ceccotti, Tiziano Caputo, Piero Grant e Valeria Romanelli chiamati ad alternarsi in tantissimi ruoli con capacità metamorfica sorprendente (ma già in parte vista ne “Lo Straniero”) che non smarrisce l’attenzione alla caratterizzazione ed ai dettagli interpretativi di personaggi anche minori e diversissimi fra loro per età e impostazione. Non manca qua e là alcune piccole sovrapposizioni di voce e musica, che nulla tolgono però alla vivida ricostruzione, a volte frenetica per via della densità di trama, di un mondo ormai lontano che sognava l’internazionale comunista come un ideale romantico e utopico di libertà, e che nella effettiva evanescenza del suo protagonista Bakunin, trova la più perfetta sintesi della disillusione post-comunista e del tramonto dell’anarchismo che nel vero Bakunin trovava il suo interprete più controverso.
Di tutt’altro genere lo spettacolo visto in Sala Specchi, OTELLO NON SI SA CHE FA ci permette di (ri)scoprire il talento di Giovan Bartolo Botta, già recensito dalla redazione (RETROSPETTIVA) ma non da chi vi scrive.
Un poeta-drammaturgo vulcanico, con una spalla altrettanto furente ma più composta, Claudia Salvatore (A TEMPO DI SCIMMIA, ma anche vista in LITTLE WOMEN) in uno spettacolo a due, in abiti moderni, colmo di irriverente dissacralità e ricostruzione posticcia in chiave moderna, degli archetipi shakespeariani: Otello e Desdemona ma anche Cassio, Rodrigo e Jago sono richiamati e gettati in un contesto moderno nel quale sono esponenti di un partito politico sovranista e senza scrupoli, ribaltato nella ideologia rispetto a quello reale (il Moro è il capo politico e tale resta anche se “nero”). Se le tensioni e dinamiche di fondo dell’originale shakespeariano, così come le gelosie, le divisioni e gli esiti dell’intreccio permangono, vincono nel testo di Botta i dialoghi, le tensioni fisiche spesso interrotte, gli scambi frenetici fra tutti i personaggi shakespeariani, di volta in volta interpretati dai due attori senza una reale distinzione narrativa, quasi parlassero tutti e quattro insieme dalle gole degli attori, distinguendosi solo al momento in cui ne vengono richiamati i nomi nei dialoghi.
C’è in questo spettacolo la tendenza all’irriverente, alla provocazione, ma anche allo spiazzante, al grido poetico di una bellezza disarmante, freneticamente reso in veloci e taglienti battute (ma Botta non perde la dizione e la perfetta scansione delle sillabe delle parole, se non quando la concitazione del personaggio richiede una sporcatura necessaria).
Lo spettacolo di Botta ti lascia dunque a terra a pensare, ti lascia frasi che in fondo ti riguardano più di quanto non sembri: “I passi verso di me sono passi laterali” o ti lascia massime che ti feriscono per la loro istantaneità quasi fossero uno schiaffo, “l’Amore è una cosa inventata dalla natura per starsi sul cazzo”.
In bocca a personaggi shakespeariani sembrerebbe tutto un’opera di dissacralità crudele, ed invece il tutto si risolve in una lucida e arcigna critica alle ipocrisie contemporanee, in specie quelle politiche, le cui piccole-grandi beghe personali contemporanee non sono poi così distanti dalle querelle sentimentali dei personaggi del Bardo, non foss’altro per i tanti richiami, soprattutto “cromatici” che costellano lo spettacolo e che avvicinano quella Tragedia del bardo con l’altra Tragedia, quella politica che viviamo ogni giorno. Dal Moro emblema del despotismo razzale vissuto al contrario (in analogia leghista), passando per il fazzoletto “giallo” di Desdemona, fonte di confusione e pietra dello scandalo, richiamante il vessillo politico dell’altra attuale forza di governo.
In questo ribollire di odio e risentimento, di disprezzo e sospetto ritroviamo anche noi stessi, le nostre dinamiche socio culturali, i nostri bassi istinti razzisti, le nostre pulsioni incontrollate, le imperdonabili violenze sulle donne: come la Desdemona shakespeariana anche quella di Botta è vittima di violenza da parte di un Uomo che perde la ragione, ponendosi in terribile analogia con il triste fenomeno del femminicidio che allora, come ora continua a essere una tragedia antica, di difficile comprensione, perché legata a pulsioni umane inafferrabili. Un risvolto questo che il teatro di Botta mette in luce con crudele evidenza, fino all’ultimo fiato lasciato da entrambi gli attori sul palco.
Non perdete dunque questo Teatro, non perdete la voglia di mettervi in discussione con opere non convenzionali da scoprire in quei contesti OFF che, vogliamo credere, con Gufetto cerchiamo di farvi conoscere e raccontare al meglio, ogni giorno.