Arriva finalmente a Firenze grazie al Teatro di Rifredi COUS COUS KLAN l’ultima fatica del collettivo mantovano Carrozzeria Orfeo, per la regia a tre di Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi e Gabriele Di Luca, che firma la drammaturgia originale. Dissacrante, irriverente, prorompente, completamente e profondamente politically uncorrect, segue lo stile ironico e spietato che ha caratterizzato i precedenti THANKS FOR VASELINA e ANIMALI DA BAR.
In un presente riveduto e scorretto si svolge il melting pot di molte storie, il cui denominatore comune è come (soprav)vivere in un mondo spietato, crudele, disumano e disumanizzante, dove l’acqua, regina di tutti i beni di prima necessità, è stata privatizzata e, chi non può permettersi di accedervi, è un emarginato sociale, costretto a stare al di là di un filo spinato. Già seduti nella sala gremita della piccola platea del teatro leggendo la trama, abbiamo sentito il disagio e lo squarcio doloroso di un crudo realismo contemporaneo.
Due roulotte, due famiglie compongono la comunità grottesca e ruvida di una discarica al di là del muro della civilizzazione. Da una parte tre fratelli: Caio (Massimiliano Setti) un ex prete cinico ed nichilista, che vive profanando le tombe del vicino cimitero, pronto a dissetarsi con l’acqua benedetta delle madonnine votive, collezionista di porno «l’unico caso dove il film è meglio del libro»; Olga (Beatrice Schiros) una cinquantenne obesa e orba, con un desiderio di maternità totalizzante «io quest’anno mi riproduco, chi c’è c’è», che trova la sua origine nel trauma dell’aborto avvenuto vent’anni prima; Achille (Aleph Viola) un disabile sordomuto ed omosessuale crudamente descritto come «frocio e handicappato» la cui minaccia ossessiva verso il prossimo è la violenza con la divertente e agghiacciante espressione di «far cagare manghi». Dall’altra parte l’immigrato musulmano Mezzaluna (Pier Luigi Pasino) compagno di Olga, che si mantiene seppellendo rifiuti tossici, uomo dal carattere mite ma costretto a far credere al padre di essere un devoto terrorista pronto a far esplodere l’occidente traditore. Nel gruppo è accolto infine Aldo (Alessandro Federico), un pubblicitario alto-borghese che, dopo aver tradito la moglie con una minorenne, si ritrova fuori casa, rassegnato alla sua condizione di neo-emarginato, si accontenta di dormire in una vecchia panda scassata: «La prima notte avrai paura, poi passa. Poi avrai vergogna e passerà, quando non ti sarà rimasto più nulla ricomincerai a dormire». La malassortita tribù, raccolta all’ascolto di radio Clandestina – funzionale tratto narrativo e descrittivo della vicenda – vive guidata dal capoclan Caio, che ostenta sicumera nascondendo benissimo tutte le sue paure e le sue insicurezze in una cinica aridità, nient’altro che l’esteriore manifestazione dell’intima mancanza di sentimenti e amore, che accomuna tutti i personaggi: «l’incontro con noi stessi è la cosa più sgradevole che ci possa capitare».
I protagonisti sembrano “illustrati”, come usciti da un comics contemporaneo con una sapiente scenografia disegnata in punta di china, dai colori e le accentuazioni somatiche fumettistiche e metafisiche, come le figure di Ranxerox di Tamburini: un mondo illuminato da una luce quasi sempre crepuscolare, dove la decadenza sociale ha preso ormai il sopravvento e si lotta per sopravvivere con ogni mezzo alla costante ricerca dell’oro. La miseria tangibile ed umana si fa carne sul palco.
Cinque vite, cinque scarti, degni de I Mostri di Dino Risi, mettono in scena la vivisezione degli strati sociali e i temi scomodi la cui incapacità di essere affrontati non è altro che la trasposizione di una realtà in vero drammaticamente odierna. Uno scenario apocalittico di una realtà distopica che accade accanto a noi ma preferiamo non vedere. I personaggi hanno in comune amputazioni fisiche e mentali che sopravvivono, con le loro reazioni, a dispetto dell’indifferenza di chi abita l’altro pezzo di mondo. Il filo spinato è al di là della linea di palco, è la quarta parete che ci separa. Chiunque si sia trovato in una township ai margini dei centri urbani di un qualsiasi paese povero, ritroverà le stesse caratteristiche e criticità, dall’impossibilità di soddisfare i bisogni fondamentali alle baraccopoli, fino all’isolamento fisico dovuto alla costruzione di un muro. Lo stato di rassegnazione che accomuna i personaggi sfocia in un conflitto perenne per salvarsi, nel sarcasmo tagliente e senza filtri, nel linguaggio greve e scurrile. Nessuno ha alcuna aspettativa di miglioramento, nessuno sguardo al futuro, il ritmo incalzante delle loro vite è rivolto al qui e ora e non riescono a concepire nessuna alternativa possibile.
La dinamica del quotidiano, del normale, della lotta vita mea mors tua, in cui sono incastonati questi squilibrati equilibri, si rompe all’arrivo improvviso di Nina (Angela Ciaburri), ragazza giovane ed esile, psicotica, confusa, iperattiva, eterea, la cui empatia e purezza sono apertamente in contrasto con il cinismo della cricca; proviene da una dimensione altra, realistica (violenza, violazione del corpo femminile, corruzione del mondo cattolico) ma non reale. Nina apre violenti squarci nelle coscienze e nelle anime dei suoi interlocutori, che mano a mano si ritrovano inaspettatamente accomunati da un unico obiettivo, coesi come non era mai successo, decisi finalmente a trovare l’oro, trafugare la reliquia del prepuzio di Gesù «il gingillo divino», per il quale chiedere un riscatto milionario. L’ora della riscossa è arrivata, i cinque disperati diventano Cous Cous Klan, piccolo esercito distorto, deforme e improbabile di cui la ragazza dell’Altrove è la paladina trascinatrice. L’utopia è arma ed elemento di unione e divisione al tempo stesso, un nemmeno tanto labile confine attraverso il quale i protagonisti sognano di potersi liberare dalle proprie catene, dai propri limiti, dalle barriere e dalle proprie schiavitù. Ma come se la vita fosse un videogame, a cui però non vengono concesse le canoniche tre vite prima del game over, l’idillio si consuma nel breve giro del proprio amaro fallimento. Del resto unico finale possibile nell’assenza di possibilità della discarica dell’umanità.
COUS COUS KLAN è uno spettacolo in cui si ride. Moltissimo. Il sarcasmo feroce e il linguaggio greve sono determinati dallo stato di profonda rassegnazione in cui versano i personaggi e dall’accettazione acritica della propria condizione. Il ritmo incalzante non consente allo spettatore di realizzare nell’immediato la drammaticità di questa condizione, il comico si mescola al drammatico e ogni dissacrazione è ammessa. La comicità di Carrozzeria Orfeo è elemento funzionale al dramma come nei precedenti spettacoli. Di tanto in tanto gli attori si sganciano dal personaggio rivolgendosi direttamente al pubblico per lanciare messaggi che spiazzano lo spettatore suscitando amare riflessioni, ma questi frammenti sono interrotti bruscamente da sferzate ciniche di un altro attore: come la speranza di un’altra vita per la bambina persa da Olga «le anime belle entrano in corpi belli». «Allora tu sei la reincarnazione di Stalin».
I personaggi sono rappresentati senza freno su nulla, senza riserve, nella recitazione come nei movimenti, la postura, il linguaggio, la gesticolazione. Non lasciano dubbi su ciò che sono. Ogni immagine è quella che è fino in fondo tutto all’estremo. Vite che, forse per scelta, forse per fatalità, sono miseria ed emarginazione, ma sono inevitabilmente le loro vite. Ognuno di loro risulta credibile, drammaticamente vero, tragicamente comico nella rappresentazione della propria storia e condizione. Gli attori non lasciano trasparire mai una sbavatura nei dialoghi serrati, veloci, senza pause, sempre cinici e dissacranti ancorchè ironici, a larghi tratti divertente. Il ritmo forsennato è virtuosismo di stile forse un po’ ostentato che gli attori sfoderano nei botta e risposta continui o in battute che diventano complicatissimi scioglilingua per la velocità con cui vengono pronunciate. Un ritmo che fa sentire l’esigenza di una pausa: la continua e incessante sovrapposizione dei pensieri, il disordine mentale che innesca la rapidità delle situazioni, la varietà dei temi scottanti che vengono toccati mostrano che non c’è via di uscita, che il caos sociale in cui viviamo non ha soluzione. Lo spettatore è bombardato da una miriade di questioni, e proprio il ritmo le rende affastellate, quasi a non dare il tempo allo spettatore di percepirne a pieno il dramma. Dai temi politici della privatizzazione dell’acqua, delle disparità sociali crescenti, fino alla miseria umana che ogni personaggio incarna prendendo una diversa sfaccettatura: Caio si è spretato perché non ha voluto essere complice degli scandali della Chiesa; Olga vive il desiderio che diventa fissazione di avere un figlio; Mezzaluna sfiora il problema dell’immigrazione (attualissima) e del terrorismo; il tenero Achille è alle prese con l’attesa del primo amore, vittima di omofobia e discriminazione. Anche con gli ospiti della nostra discarica non restiamo delusi: Nina ha subito un abuso filmato e Aldo porta in scena il perdono negato, paga senza appello al proprio sbaglio. «Come abbiamo fatto a trasformare il mondo in questo eterno fallimento?» si chiede Caio.
La scenografia, realizzata da Maria Spazzi, è tetra, grigia e oscura, funzionale all’esaltazione del nichilismo e della distopia del contesto, curata attentamente nei particolari, dando subito un impatto ed un effetto che colpisce lo spettatore prima ancora di avere compreso il dove, il quando e il perché. Lo spazio scenico è pienamente occupato: le roulotte storte ricoperte di sabbia, la macchina accartocciata quasi nascosta dai rifiuti, bidoni, rifiuti e il palco cosparso di sassolini e polvere. Una discarica tra il cimitero, la recinzione e la fossa comune degli zingari. Una discarica, sia materiale che umana, perché in questo microcosmo, dove vivono i personaggi, vi sono racchiuse tante verità, tante realtà che esasperate e rese ridicole, diventano reali. Tra quelle roulotte viene descritto il mondo intero con le sue mille sfaccettature, messe a nudo, chiamate col loro nome. Si presenta davanti allo spettatore anche visivamente la realtà in tutta la sua crudezza, quella di tutti i giorni, vicina o lontana che sia, una realtà che ci riguarda e che ci presenta il conto. Lo spazio è utilizzato dagli attori in modo quasi cinematografico, dentro, fuori e dietro i camper e l’auto, creando come degli zoom con le luci che illuminano profondità fino a quel momento inesistenti agli occhi, come l’interno delle roulotte. Omaggio e derisione al cinema da action movie l’esposizione del piano d’attacco per il furto della reliquia, realizzata con l’esposizione del ruolo di ciascuno su un plastico, ridicolizzato dagli oggetti usati, collezione macabra e divertente di quanto trovato nei cassonetti (pupazzetti, madonnine, rifiuti, scarti). I costumi, studiati da Erika Carretta, caratterizzano i personaggi, come la pelliccia da capo klan di Caio come fosse vestito di pelle d’orso, o Nina che nuda e in bianco ci dice tutto della suo essere di un altro mondo. La musica originale di Massimiliano Setti accompagna con discrezione la narrazione, lasciando molte scene senza tappeto sonoro, aumentandone il realismo. Lo strato sonoro si fa evidente nelle rocambolesche scene collettive di movimento e nei passaggi temporali o nei piccoli frammenti poetici, in cui il dolore dei personaggi arriva con più forza al pubblico.
Come nel teatro greco antico (il teatro e la vita era un tutt’uno, era una rappresentazione della realtà), anche nello scorcio di quotidianità portata all’esasperazione che compare in COUS COUS KLAN appare una realtà che sembra più tangibile della realtà stessa, compare la vita con le angosce e le speranze, con l’ironia e con la drammatica ordinarietà. E tutto arriva come un pugno nello stomaco: non un ipotetico futuro, ma il presente che ignoriamo, la storia dell’essere umano, delle civiltà.
Veniamo presi per due ore a schiaffi, ridiamo di una realtà squallida e disillusa perché vera, siamo avvolti in un vortice di azioni, dialoghi, battute irriverenti, tematiche senza avere il tempo di fermarsi a pensare, torniamo a casa sgomenti e frastornati forse con un ultima domanda: è meglio non rischiare, non rimane delusi da qualcosa che magari nemmeno esiste? Oppure aggrapparsi a quell’unica speranza possibile che potrebbe rivelarsi una chimera per tornare ancora più disillusi di prima? Insomma meglio emozionarsi, anche solo per un attimo, provare quella “felicità puttana che dura un minuto” o assuefarsi a una vita che non fa sconti e puntare semplicemente a sopravvivere?
La disillusione del finale è volutamente coerente/incoerente alla trama, porta a chiedersi amaramente se sia giusto trovare uno spiraglio per cambiare, arrivarci vicino e poi tornare con il culo per terra. Vogliamo credere tuttavia che nonostante il fallimento, l’esperienza implichi una trasformazione e una crescita dei personaggi e delle relazioni tra loro. Anche se la speranza del riscatto sfuma e resta la misera condizione materiale, si sono aperti orizzonti inaspettati e opportunità che mutano nel profondo le aspettative individuali: «questa potrebbe essere ‘unica cosa bella bella della mia vita, Dio, ti prego, non me la scorreggiare». In questo mondo di merda la felicità dura poco, viene e se ne va con Nina, la ricchezza agognata non c’è, si ritorna dove si era. L’abbraccio finale di Nina e Olga potrebbe sembrare banale, ma dopo aver chiamato frocio il gay, handicappato il diversamente abile, muso nero lo straniero, orba la non vedente, nella desolazione del ritorno al vuoto, è bello concedersi anche solo un momento di abbracci perduti sotto la luna piena.
Tu fai troppe domande, le cose accadono o non accadono
COUS COUS KLAN
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
con Angela Ciaburri, Alessandro Federico, Pier Luigi Pasino, Beatrice Schiros, Massimiliano Setti, Aleph Viola
voce fuori campo Andrea Di Casa
scene Maria Spazzi
costumi Erika Carretta
musiche originali Massimiliano Setti
Produzione Carrozzeria Orfeo
in coproduzione con Teatro dell’Elfo, Teatro Eliseo, Marche Teatro
foto di Nicola Melani e Laila Pozzo
Teatro di Rifredi
14/16 marzo 2019