CONTEMPORANEA FESTIVAL 2020 @Prato: l’imprevedibilità  del prevedibile

Con questo motto è stata inaugurata il 18 settembre scorso l’edizione 2020 di Contemporanea Festival a Prato (in programma fino al 27 settembre), organizzata dalla Fondazione Teatro Metastasio insieme a MiBACT, Regione Toscana, Comune e Provincia di Prato. Primo reportage di Gufetto Firenze.

a cura di Susanna Pietrosanti e Leonardo Favilli

Contemporanea Festival 2020

Si sono così ufficialmente aperte di nuovo le porte dei teatri della città al pubblico dopo la forzata interruzione dei mesi scorsi. Un segnale di ripresa e di risposta ad una domanda sempre crescente di drammaturgia dal vivo. Ad inaugurare il festival la messa in scena de La Reprise – Histoire(s) du Thèâtre (I) del regista svizzero Milo Rau al Teatro Fabbricone. Un’esibizione che con l’aiuto della tecnologia ha saputo scardinare l’ordine precostituito di un semplice fatto di cronaca. Una riflessione su realtà e verità che è stata approfondita al Teatro Metastasio anche dalla compagnia catalana Agrupación Señor Serrano con la sua The Mountain, provocatorio tentativo di investigare il fenomeno della manipolazione delle masse attraverso la comunicazione.

LA REPRISE e la banalità del male di MILO RAU

Sei attori, un cameramen e uno schermo. Un caso giudiziario belga. Una città abbandonata. Una vita spezzata e una storia drammatica pervasa dalla solitudine. E soprattutto l’assoluta banalità del male portata in scena.

Nel maggio 2012 alla periferia di Liegi viene rinvenuto il corpo senza vita di Ihsane Jarfi, 32enne omosessuale di origine marocchina, scomparso due settimane prima, dopo essere salito in una macchina con altri tre uomini davanti ad un locale gay. Questo è il centro dell’opera: raccontare la vicenda umana e giudiziaria di uno squallido omicidio. In apertura Sabri Saad El Hamus parla direttamente al pubblico sul momento in cui un attore entra nel personaggio, indaga sull’inizio di una qualsiasi messa in scena. Parte il video con Sèbastien Foucault che ci racconta la vicenda di Ihsane e iniziano i provini per le parti della madre, di Wintgens (uno degli accusati) e dello stesso protagonista. Ed è da qui che lo spettacolo sembra assumere canoni classici, che invece classici non sono. A partire dai flashback con la storia di Ihsane, dei suoi assassini, dei suoi genitori, si ricostruisce quella maledetta sera in cui il giovane, non si sa proprio perché, è salito su quella Polo grigia. Sarà proprio lui, Adil Laboudi, a chiudere l’opera, a decretare la fine dello spettacolo.

Un esperimento di teatro documentario che colpisce per la sua innovatività: vengono proiettati video e soprattutto, insieme ai sottotitoli in italiano, vengono riprodotte sul grande schermo scene girate nell’istante, un’immagine doppia, in scena e sullo schermo. Il risultato è una rappresentazione in 3D, fatta di teatro, cinema e realtà. Si assiste alla banalità del male, agli spietati ed incomprensibili meccanismi della violenza di gruppo. Un lavoro introspettivo che si spinge all’atto performativo in sé, dalla spiegazione del teatro, alla messinscena vera e propria, passando per il casting e la realizzazione: mettere a nudo non estrania, bensì ci porta sul palco. La triste vicenda non resta uno dei tanti casi di cronaca, ma diventa un momento di riflessione sulla banalità del male, sulle assurde dinamiche di gruppo, sui troppi stereotipi che per colpa dell’ignoranza e della pochezza umana restano radicati nella nostra società.

Gli attori/non-attori risultano efficacissimi perché riescono continuamente ad uscire ed entrare nei panni dei personaggi, tra realtà e finzione, i loro primi piani sono toccanti e permettono una commovente immedesimazione dello spettatore. La scenografia è comunque essenziale, due scrivanie, una sedia che viene usata per i provini, fino a che, nell’ultimo atto non compare la Polo grigia, dove vengono girate le scene precedenti all’omicidio. La scena dell’agguato in macchina è particolarmente riuscita, con le inquadrature all’interno della macchina che, in bianco e nero sullo schermo e col rumore della pioggia, rendono perfettamente la miseria umana dei protagonisti; in particolare riesce a catturare la dinamica assurda sul gruppo, in cui Wintgens non partecipa fisicamente al pestaggio, ma non riesce comunque ad intervenire per salvare Ihsane.

La Réprise è uno spettacolo toccante, lo è per la storia che racconta e per come riesce a rappresentarla, con una doppia immedesimazione che rafforza l’indagine sociologica sui personaggi. Durante l’intero l’atto performativo, non si mette semplicemente in scena una rappresentazione, si parte da tutto quello che lo spettatore vede compiuto: l’idea, l’ipotesi, la scelta degli attori e conclusi i cinque atti, come si vuole risolvere l’opera, qual è il confine, quando si può stabilire la fine. Non si può che uscire sconvolti da teatro per la crudezza che è resa cosi viva dal vivo e dal palco, si ha davvero la sensazione di aver toccato l’attimo.

Milo Rau e il senso della fine

Non si tratta più di dipingere il mondo. SI tratta di cambiarlo. L’obiettivo non è rappresentare il reale, ma rendere la rappresentazione essa stessa reale”. Il punto primo del celebre Manifesto di Gand redatto da Milo Rau nel 2018 ci fornisce una delle chiavi di lettura de La réprise, uno dei più intensi e funzionali capolavori del regista, filosofo e saggista svizzero. Certo un punto base del teatro di Milo Rau è proprio mettere in questione il teatro stesso, scardinandolo verso il pubblico o trascinandolo fuori dalla propria comfort-zone, portando avanti una poetica di irruzione del reale nella finzione il cui caposcuola, in Francia, è Mohammed El Khatib. Da un lato la finzione viene epicamente ostentata, dall’altro drammaticamente ricostruita, ed il reale diventa struttura e personaggio. Il prologo epico magicamente pronunciato da Johan Leysen, che mostra la sua bravura di fattorino di emozioni (”il teatro è come la pizza, quando te la consegnano non ti interessa la faccia del fattorino ma il gusto della pizza”) nel dare parola al fantasma del padre di Amleto, potrebbe essere una traccia investigativa: si tenta di dare voce ai morti, che magari non parlano, ma che certo ci ascoltano. E tutto lo spettacolo tenta infatti di ricostruire la tragica, e inutile, morte di Ihsane Jarfi in varie fasi: una vera e propria inchiesta sociologica sul campo, un casting, una rievocazione vera e propria in cinque atti più uno. Apparentemente, niente di più semplice e crudele: un teatro processo, visto che la camera dell’inquisizione è teatro da sempre. Ma lo spessore molteplice e multiforme di quest’opera è infinito. Ogni dato realistico diventerà drammaturgia, talvolta in una capriola oppositiva sorprendente e destabilizzante, un sortilegio che riesce a tirare dentro ciò che è fuori. Così l’esitazione di Suzy Coco che al provino dichiara di non essere capace di piangere a comando e forse neppure di recitare nuda si capovolgerà, e la vedremo nuda mater dolorosa a comunicare i retroscena dei suoi dubbi e dei suoi tentativi falliti di rapporto col figlio già perduto, anche se lei lo ignora: e proprio la nudità (sua, del marito, della vittima alla fine) costituirà una separazione fortissima delle vittime dai carnefici. Il gramelot che l’attore marocchino inventa per convincere il suo regista di saper parlare berbero, e che regala al pubblico una risata, diventa balbettio terribile nella preghiera in arabo che Ihsane pronuncia già in agonia nel bagagliaio dell’auto dei suoi assassini e poi scala e freccia sonora nel canto a cappella del capolavoro di Purcell, The cold song, che la vittima risollevatasi dal palco intona, costituendo una delle fini. L’altra è affidata a Sara de Bosschele, che recita Impressioni teatrali di Wislawa Szymborska , un sesto atto di micidiale bellezza, in cui ”l’entrare in fila indiana di morti già da un pezzo” stringe veramente alla gola il pubblico. Il laccio nero che ogni performer porta attorno al collo, visibile e invisibile maniera di apparentarli tutti in un gruppo altro, sospeso tra due concezioni temporali, due storie e due mondi, passa adesso fluidamente alla gola di ogni testimone di questo evento – e stringe.

Del resto, tra due mondi abbiamo già fatto la spola. Gli schermi sul palco ci hanno costretto a farla, seguendo l’alternanza tra una dimensione e l’altra, tra un reale rappresentato nel cielo dello schermo e un reale mimato nella terra del palco, talvolta modo di conferire, con gli estremi close-up sui visi e sugli occhi degli attori, un’autenticità e un’emotività massime, talaltra invece tecnica di iper–realismo, per mezzo della quale si vede tutto. Ogni particolare diventa visibile,  anche ciò che non lo sarebbe visibile. Poi la caduta del corpo dell’attore dallo schermo alle assi del palco mette fine alla visione alternata, e allo strazio, con un no cosmico veramente indimenticabile. Ma non conclude le domande. Perché avviene il delitto? Intenzione o coincidenza?  Qual è la colpa collettiva?  È legittimamente rappresentabile la violenza? Oppure, come asserisce Barthes, la morte deve restare fuori? Domande senza risposta, certo. Ma la catarsi non ci è negata. Fra le molteplici valenze di un capolavoro come La réprise c’è anche il suo essere un balsamo. Incanto dei morti, esperienza ritualizzata del trauma, purificazione. Quando il compagno di Ihsane, vedovo di lui e prostrato dall’infinità della disperazione, si ribella con rabbia contro l’invincibilità del dolore, viene benedetto. Il coniglio profetizzato dall’indovina, segnale di perdono e di pace dalla vittima ai viventi, appare, e sfreccia di là della strada. I morti ascoltavano, il rito del teatro, ancora, ha un senso.

THE MOUNTAIN e la distopia dell’immanente

Se tu salissi in cima alla montagna senza la tua macchina fotografica, se raggiungessi la vetta senza poter testimoniare di aver compiuto l’impresa, le tue grida di gioia diverrebbero meno reali perché non sufficienti a testimoniare la conquista della cima? Esisterebbero senza qualcuno che le ascolta?

Nell’era dell’informazione globale e capillare, capace di superare le barriere naturali e sociali grazie a mezzi di largo consumo, possiamo ritenerci più vicini alla verità di fronte all’evidenza dei media? Una domanda alla quale già Orson Welles nel 1938 rispose con il suo rivoluzionario esperimento radiofonico che fece crollare la credibilità assoluta di un mezzo oggi paragonabile ai social media, innalzati al ruolo di paladini della verità. Nell’epoca della cosiddetta democrazia diretta, “fantastica e smisurata”, l’illusione di detenere l’assoluta verità assume tratti tanto realistici quanto l’avatar di Putin che compare su uno dei teli-schermo sul palco grazie un potente software di acquisizione facciale. Un effetto illusionistico che sfrutta la moderna tecnologia al pari della radio del 1938 e che viene costantemente disvelato in scena, costruendosi e destrutturandosi in tempo reale davanti ai nostri occhi. La compagnia catalana Agrupación Señor Serrano con i suoi 4 attori/operatori in scena, accompagnati da finti modelli di paesi e di interni, neve spray, teli plastificati ci mostrano lei, The Mountain, la montagna resa scivolosa da quegli stessi mezzi che dovrebbero aiutarci a scalarla fino alla conquista della Verità. Infatti le telecamere e il drone abilmente manovrato ci proiettano in una dimensione che ci appare distopica ma immanentemente immantinente, dove non stupisce la perplessità sull’autenticità della citazione iniziale dalle lettere della moglie Ruth al primo scalatore statunitense del monte Everest, George Mallory, morto durante la scalata in solitaria senza conoscere se mai abbia davvero conquistato l’ambita vetta. Una stessa perplessità che si evolve nel corso della messa in scena, inizialmente fatta di scetticismo per la sfida lanciata dalla compagnia sulla capacità di manipolare la realtà di fronte ai nostri occhi di spettatori, e poi tarlo insistente distruttore di ogni riferimento certo.

Muovendosi lentamente ma con precisione sul palco, con la stessa prudenza di un rettile e con la sua stessa capacità di avvelenarci, gli attori giocano sapientemente con l’oggettistica di scena, con le musiche e con le luci dirigendo tutto direttamente dal palco creando una terza dimensione parallela alle altre e altrettanto reale. Il risultato è una caleidoscopica dimensione spazio-temporale che avremmo preferito talvolta anche più provocatoria ed estrema ma che è comunque risultata efficace per disvelare i meccanismi di manipolazione della realtà, oramai all’ordine del giorno. E non avremmo potuto desiderare migliori interlocutori considerando l’esperienza diretta della compagnia che ha sperimentato la creazione di notizie false, poi infiltrate in rete attraverso appositi account fasulli così da fruttare il denaro necessario per un software di riconoscimento facciale utilizzato a fini drammaturgici.

Una volta usciti dalla rinnovata platea del Teatro Metastasio forse possiamo dire che gli attori non ci hanno davvero illusi che la loro fosse una partita di baseball e non di badminton, iniziata ben prima dello spettacolo a scena aperta, ma certamente da vittime razionalmente consapevoli ci hanno reso vittime coscienti di un meccanismo di manipolazione nel quale restiamo, immancabilmente, comunque, vittime. La verità è davvero troppo contraddittoria e scivolosa, come The Mountain.

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LA REPRISE. HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE (I)

concept e regia Milo Rau
testo Milo Rau ed ensemble
performers Sara De Bosschere/Kristien de Proost, Suzy Cocco, Sébastien Foucault, Fabian Leenders, Johan Leysen/Sabri Saad El hamus, Tom Adjibi/Adil Laboudi
ricerca e drammaturgia Eva- Maria Bertschy
collaborazione drammaturgica Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
scena e costumi Anton Lukas
video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
disegno luci Jurgen Kolb
sound design e direzione tecnica Jens Baudisch
direzione di produzione Mascha Euchner-Martinez, Eva- Karen Tittmann
camera Maxime Jennes, Moritz von Dungern
staff tecnico in tour Jim Goossens-Bara, Maxime Jennes, Moritz von Dungern (Camera); Sylvain Faye, Sebastian König (Light); Pierre-Olivier Boulant, Jens Baudisch (Sound); François Pacco (Subtitels); Mascha Euchner-Martinez (Tour manager)
assistente alla regia Carmen Hornbostel
assistente alla drammaturgia François Pacco
assistente alla scenografia Patty Eggerickx
coreografia lotta Cédric Cerbara
vocal coach Murielle Legrand
arrangiamento musicale Gil Mortio
pubbliche relazioni Yven Augustin
attrezzature tecniche e studio di Théâtre National Wallonie-Bruxelles
attori secondari Mustapha Aboulkhir, Stefan Bläske, Tom De Brabandere, Elise Deschambre, Thierry Duirat, Stéphane Gornikowski, Kevin Lerat, François Pacco, Daniel Roche de Oliveira, Laura Sterckx, Adrien Varsalona
produzione International Institute of Political Mur- der (IIPM), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles
supporto Capital Cultural Fund Berlin, Pro Helvetia, Ernst Göhner Stiftung and Kulturförderung Kanton St. Gallen
co-produzione Kunstenfestivaldesarts, NTGent, Théâtre Vidy-Lausanne, Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, Théâtre de Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival
con il supporto di ESACT Liège
foto Hubert Amiel

Venerdì 18 settembre – Teatro Fabbricone

THE MOUNTAIN

creazione Àlex Serrano, Pau Palacios, Ferran Dordal
performance Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios, David Muñiz
video-programmazione David Muñiz
video creazione Jordi Soler Quintana
musica Nico Roig
spazio scenico e modellini in scala Àlex Serrano, Lola Belles
assistente scenografia Mariona Signes
costumi Lola Belles
design luci Cube.bz
maschera digitale Román Torre
produzione Barbara Bloin
produzione esecutiva Paula Sáenz de Viteri
diffusione in Italia Ilaria Mancia
management Art Republic
foto Jordi Soler

Domenica 20 settembre – Teatro Metastasio

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