CONTEMPORANEA FESTIVAL 2020 @Prato: le arti performative a servizio delle fragilità dell’anima

Il variegato programma del Festival Contemporanea 20 a Prato a cura della Fondazione Teatro Metastasio non ha mancato di includere commedie e proiezioni/letture che hanno accompagnato le numerose coreografie di danza. Nella fase centrale della rassegna presso l’Ex Cinema Excelsior la compagnia Kinkaleri ha proposto la coreografia HellO, anteprima di una seconda performance già in fase di sviluppo ma interrotta dalla chiusura dei mesi scorsi. Nello stesso luogo gli attori di Vico Quarto Mazzini con LIVORE, in debutto nazionale dopo l’anteprima estiva, hanno ripercorso le dinamiche del rapporto contrastato tra Mozart e Salieri, trasponendo il tutto ai giorni nostri mentre Greta Francolini con il suo VARIETÀ allo Spazio K ci ha riportato all’apatia e all’incomunicabilità del movimento hippie. In chiusura Giorgia Ohanesian Nardin ha proposto al Fabbrichino il suo GISHER, intensa performance di proiezioni e letture sul conflitto armeno-azero. Molteplici forme d’arte per rendere tangibili quelle fragilità umane capaci di radicarsi nell’anima di ognuno.   

a cura di Federica Murolo e Leonardo Favilli

HELLO E VARIETÁ: IL CORPO DANZANTE COME GUARDIANO DELL’ESSERE

Uno spazio vuoto riempito soltanto di luce bianca, riprodotto ed amplificato sotto il livello del piano scenico da una lastra specchiata, ed un uomo che silenziosamente lo viola. Un colpo di piatto, come un gong, e quello stesso spazio vuoto assume finalmente forma e dimensione rapportandosi alle proporzioni armoniche di un corpo atletico ed elegante. Atletico come nella tradizione classica in cui era necessario detergersi la pelle prima dell’inizio di una prestazione sportiva che da lì in poi diventa contorsionismo di una larva che tenta di uscire dal suo bozzolo pronunciando parole in idiomi sconosciuti dal suono slavo. Prendendo gradualmente coscienza delle membra che sembrano tentare di raggiungersi a vicenda in un intreccio di muscoli, i movimenti si fanno quindi più sinuosi e la muscolarità lascia spazio ad una fluidità armonica che si spinge fino alla morbidezza femminile, smaccatamente ammiccante. La comunicabilità del corpo di Michele Scappa in HellO è incisiva a tal punto che la scansione temporale del piatto in scena, seppur funzionale a regolare la sequenza, è quasi superflua nel discriminare i vari stadi di una metamorfosi sorgente da un corpo che a sua volta ne trae linfa vitale, forgiando lo spazio scenico non più indefinito, anch’esso oggetto di un’evoluzione inarrestabile. L’armonia infatti apre la strada all’arte, alla capacità del corpo di comunicare, appunto, attraverso la coordinazione e l’allenamento. In una parola la danza sorge come naturale risultato del processo iniziato con semplici contorsionismi e conclusosi nel canone oramai codificato di passi ed esercizi, come se le lettere di un alfabeto del corpo fossero finalmente definite, pronte per forgiare un linguaggio nella fluidità dell’aria e della luce. Siamo al saluto iniziale, all’Hello appunto.

Le regole della comunicazione sembrano però irretire quella libertà espressiva, che finora il danzatore in scena ha incarnato, in una ragnatela che lo vede infine preda imprigionata ed impossibilitata ad esprimersi. Tesi ed antitesi del dialogo si fondono nel corpo oramai madido che resta inevitabilmente invischiato in uno spazio infine schiacciato dallo specchio con un effetto di ridondanza tanto stridente che, oltre le musiche dai ritmi incalzanti, il corpo stesso sembra gridare la sua sofferenza. Ma non tutto sembra perduto: uno squarcio infatti si apre in quella intricata ragnatela, non più completamente riflessa dallo specchio, e lo sguardo interrogativo condito da un sorriso argutamente vittorioso del danzatore lascia intravedere una speranza a completamento della metamorfosi cui abbiamo assistito. Le riecheggianti e intimidatorie espressioni pronunciate da un invisibile deus ex machina (“You know”, “lo sai”, “si”) non lasciano però scampo e non ci permettono di uscire innocentemente indenni da una dimensione comunicativa che sempre di più ci vede prigionieri della ragnatela, impossibilitati a trovare una via d’uscita.

Laddove il corpo, per natura destinato al dinamismo di muscoli e ossa, è costretto ad una tale fissità, diventa pertanto potente mezzo capace di comunicare l’incomunicabilità, causa prima dell’apatia e dell’insofferenza annoiata dei protagonisti di Varietà. Una scenografia costruita con un lungo manto di tessuto a fare da tappeto, una distesa di fiori finti dalle tonalità tenui tra l’ocra, il rosa antico ed il celeste, ed infine qualche abat-jour in stile vintage. Su questa scena, curatissima nei dettagli, si esibiscono i tre protagonisti/ballerini Chiara Bollettino, Greta Francolini, Ian Gualdanì, accomunati tra loro da espressioni di aria stanca, svogliata, distratta, indossando costumi che si intonano perfettamente al contesto circostante. Una scena “hippie”, dove l’ozio, il piacere e l’oblio la fanno da padroni. Ogni ballerino passa così da una posizione sdraiata ad una eretta muovendo costantemente braccia e gambe, senza un obiettivo né una direzione precisa, fumando una sigaretta tra un passaggio e l’altro. Lo stesso fumo li avvolge in quest’aura di inerzia come a volerli proteggere da tutto ciò che è esterno. La musica fa loro da sfondo: i ballerini si alternano su di essa, unico vero elemento variabile sulla scena, e motore propulsivo per farli cambiare di posizione con ritmi che spaziano dall’Opera fino a motivi pop-rock di musica leggera, passando per lo swing. Eppure, questo sfondo musicale non è in grado di risvegliare gli animi e le energie dei protagonisti, che perseverano nei loro movimenti meccanici e fiacchi, come completamente anestetizzati, per tutta la durata della messa in scena. Il contrasto voluto tra la musica allegra e frizzante, profonda e mutevole, e la totale passività dei ballerini risulta spiazzante sul momento e solo una riflessione a posteriori, a mente fredda, può aiutarci a trovare l’incastro dei vari tasselli. Si delinea così un mosaico che è una critica alla società ed ai giovani di oggi che non riescono a carpire gli stimoli che la vita presenta loro e che rimangono purtroppo intrappolati nella più totale apatia dell’esistenza. Menti e anime che restano annebbiate da comportamenti abitudinari, monotoni e privi di qualsiasi stimolo, uno stato in cui purtroppo nemmeno la musica può fare più nulla. Il messaggio arriva tuttavia in una forma che avremmo auspicato più incisiva. L’esibizione è molto breve (poco più di trenta minuti) e resta invariata per tutta la sua durata. Non avviene alcun tipo di “colpo di scena” finale, nessuna coreografia differente che faccia intendere l’intima volontà della autrice o che possa suggerire agli spettatori la chiave per disvelare un messaggio. Non ci sono cambi luce, cambi costume o anche solo cambi di espressività dei ballerini, tutta l’esibizione rimane sempre ad un ritmo costante. Tutto contribuisce a creare nel pubblico una sensazione di attesa per capire dove questi movimenti, scomposti e scoordinati, vogliano condurre la mente dello spettatore e la risposta non è proprio immediata. Laddove i ballerini sono stati perfettamente calati nelle parti e molto convincenti, meno incisivo è apparso l’insieme degli elementi che se amalgamati con una ricetta diversa avrebbero sicuramente reso più gustoso il piatto.

GISHER – EVOCAZIONI DI ASCOLTO DALL’ARMENIA

Gisher è l’ultima creazione di un’artista poliedrica, unica e singolare nel suo genere. Di non facile lettura, tanto che Giorgia Ohanesian Nardin ha voluto munirci di un vero e proprio libretto: 78 pagine ricche di testi e grafiche d’effetto per aiutarci con la comprensione. “Gisher” in lingua armena significa Notte, ed il buio infatti è una costante di questo lavoro. Non ci viene presentato uno spazio scenico o una coreografia, né sono presenti degli attori. Il pubblico entra nella piccola e raccolta sala del Teatro Fabbrichino di Prato ed una volta seduto sugli spalti inizia ad ascoltare in sottofondo Believe, famosa canzone di Cher, che crea stupore in quanto pochi sanno che la cantante ha una discendenza armena come la Nardin. Mentre la musica sfuma, si accende uno schermo dalla luce abbagliante, ed inizia così la proiezione di video, girati dall’autrice con la collaborazione di F. De Isabella, che fanno da protagonisti nella prima parte dello spettacolo. Si vedono scorrere immagini di paesaggi armeni desolati, scene di belly dance auto-riprese nella propria camera, un pendolo che oscilla in modo ricorrente, panorami muti. Tutte le proiezioni sono accompagnate dalla lettura di testi in inglese (con sottotitoli in italiano) incentrati sulla ricerca sul sé e sull’altro, ricerca sulle emozioni, ricerca di risposte alle affannate domande sulla vita. C’è un fuoco che brucia ed arde costantemente dentro ognuno di noi, se in effetti ci facciamo caso. Queste letture/video trasmettono tutta la drammaticità del momento e del conflitto in terra armena (“come ti fa sentire la parola devastazione?”/ “un’amica mi ha detto che ci sono 50 parole diverse per dire dolore nella lingua armena” / “coraggio è una parola di cui mi voglio liberare…coraggio implica sapere, perseguire, mostrare. Io brucio”), calata anche nel contesto pandemico attuale, per cui ognuno di noi si sente in uno stato di oscillazione, smarrito e disorientato. La scelta dell’immagine del pendolo che viene proposta è di fatto estremamente efficace. La voce narrante fa da guida durante la visione ed invita poi gli spettatori ad alzarsi in piedi per lasciare il Fabbrichino e spostarsi nella sala principale del Fabbricone. Nella seconda parte dello spettacolo, o della Notte, accompagnata dal rumore incessante della pioggia, la Nardin al buio fa sedere il pubblico in cerchio intorno ad un altro fuoco simbolico, una grande giara contenente candele che ella accende una per volta in religioso silenzio, lasciando gli spettatori all’ascolto di nuovi testi, letture, sempre toccanti e drammatiche. Sono due ore intense quelle complessivamente trascorse e, pur abbandonandosi al flusso delle emozioni, non mancano le difficoltà di interpretazione delle stesse. L’autrice vuole invitarci alla riflessione sui nostri stati d’animo, specie in questo tempo sospeso, di distanziamento fisico, di chiusura e di paure. “Il conflitto armeno – azero si sta riprendendo proprio in piena pandemia, quando le persone sono costrette a rimanere in casa in una condizione di estrema fragilità su più fronti”, leggiamo dalle sue riflessioni finali, anch’esse fornite insieme al libretto.

Alla fine lo spettatore resta in solitudine con le sue sensazioni e riflessioni. L’artista ha voluto comunicare, esclusivamente tramite il senso della vista e dell’udito, con strumenti precedentemente preparati e registrati.  L’atmosfera è rimasta alquanto suggestiva oltre che toccante è rimasta fino alla chiusura che non ci è sembrata particolarmente incisiva. Probabilmente la Nardin si sarebbe aspettata un intervento da parte del pubblico, che non è arrivato perché non efficacemente suggerito. Finite le letture infatti, siamo rimasti soli intorno alle luci delle candele, senza più nessuna nuova comparsa in scena, pertanto abbiamo salutato la sala con una piccola dose di amarezza di fronte alla mancata occasione di potersi confrontare con l’autrice per poterla non solo applaudire ma per arricchire il nostro bagaglio di conoscenze su un tema che riteniamo sconosciuto al grande pubblico, noi compresi.

VICO QUARTO MAZZINI E L’INSTABILITA’ INVIDIOSA DEI RAPPORTI UMANI

In una molteplicità di piani attoriali che si alternano e si intrecciano in uno spazio scenico immutabile sembra prendere vita una commedia dai toni inusuali per il Festival. Una coppia di ragazzi conviventi, uno più spregiudicato e arrivista, Rosario (Gabriele Paolocà), l’altro, Antonio (Francesco d’Amore) più timido ed insicuro. Un rapporto d’amore tra loro oramai consolidato. L’inizio l’indomani delle riprese di una nuova serie TV su Wolfgang Amadeus Mozart precedute da un’importante cena di lavoro tutta da allestire e preparare entro la giornata. Un amico, Amedeo (Michele Altamura), attore talentuoso ma di scarso successo. Una trama che lascia presagire una ricca tavola imbandita al centro della scena, tanti caratteri intorno a giocare il ruolo degli ospiti con i loro dialoghi, le loro risate, con l’esaltazione dei loro vizi e delle loro virtù capaci di condurci ad un finale con tanto di morale di chiusura. E invece niente di tutto questo, o quasi. Per chi conosce la realtà di Vico Quarto Mazzini certamente non è una novità e per tutti gli altri che frequentano il Festival, nemmeno. Una prevedibile concatenazione di eventi che non prevede complicazioni o difficoltà, fatta di quella “normalità” di cui talvolta ci stanchiamo, essendone al contempo rassicurati, assume ben presto i connotati di un intreccio psicologico. In un crescendo di tensioni, inizialmente latenti e tradite solo da qualche tic nervoso, i protagonisti interagiscono con il disagio di un attore privo di quelle note di regia che possano suggerirgli come muoversi nella realtà così come davanti ad una telecamera o su un palco. Riescono abilmente a frammentare il piano della recitazione giocando a ricoprire dei ruoli che nascondono l’inquietudine per la normalità dei protagonisti che a loro volta sono essi stessi ruoli di una sceneggiatura scritta. Unico denominatore comune tra i piani, responsabile delle battute che sembrano riempire in tempo reale le righe vuote del copione, come un deus ex machina strisciante ma determinante, quel sentimento di livore capace di consumare i rapporti fino alla rottura. Così come nella realtà storica Mozart ha scatenato le invidie di un maestro come Salieri, talentuoso musicista ricco di mestiere ma povero di genio, allo stesso modo sul palco Amedeo scardina i già fragili equilibri della coppia, fino ad un capovolgimento di ruoli che scombina ulteriormente la trama. Lavata letteralmente via la propria insicurezza, finita nello scarico della doccia che si fa in scena, Antonio abbandona il suo livore per lasciare spazio alla consapevolezza e finalmente la ricerca di un ruolo da ricoprire può dirsi conclusa là in quel posto in platea dove può finalmente accomodarsi, sereno e senza più tic nervosi. Finalmente ha trovato il modo di essere davvero al centro dell’attenzione, illuminato da un occhio di bue e ammirato dagli altri mentre Rosario ha oramai compreso che è Amedeo, leggasi Amadeus, il cavallo vincente su cui puntare.

Grazie ad una sceneggiatura scritta con attenzione e ai testi che, pur non intellettualistici, non hanno mancato di colpirci per efficacia, i 3 attori sul palco hanno saputo coordinare i vari piani attoriali con maestria, riuscendo a strapparci più volte un sorriso farcito della giusta dose di amarezza. Importante non farsi ingannare dalle apparenze perché laddove le luci bianche, intense, illuminano omogeneamente lo spazio, è lì che si nascondono le ombre, tra le paure che emergono gradualmente (“mi sta sfuggendo il sotto-testo”, “hai paura che si riveli quello che tu credi che sia”) per mostrarci la realtà. Luce ed ombra come vita e morte, ignara delle dinamiche emotive dei protagonisti e prepotentemente presente dall’inizio alla fine con le note del Requiem di Mozart in cui si sono cimentati tutti gli attori con corpo e voce. Una sorta di memento mori che in fondo, anche se non abbiamo assistito ad una commedia classica, può certamente rappresentare una degna morale di chiusura.

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Contemporanea Festival 2020

HELLO

progetto e realizzazione Kinkaleri/Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco
con Michele Scappa
musica Canedicoda
produzione Kinkaleri / KLm
con il sostegno di Regione Toscana, MIBACT – settore spettacolo
Giovedì 24 Settembre – Ex Cinema Excelsior

VARIETÁ

creazione Greta Francolini
con Chiara Bollettino, Greta Francolini, Ian Gualdanì
costumi Rebecca Ihle
scenografia Greta Francolini
una produzione CAB 008
sostenuto nell’ambito del progetto di residenza artistica Passaggio a Nord Ovest/ Kinkaleri_spazioK, Teatri d’Imbarco_Teatro delle Spiagge
con il supporto di Regione Toscana, Mibact, PARC Fabbrica Europa
Giovedì 24 Settembre – Spazio K

GISHER

scrittura Giorgia Ohanesian Nardin
riprese F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin
composizione suono e video F. De Isabella
drammaturgia video F. De Isabella, Giorgia Ohanesian Nardin
ambiente luminoso Giulia Pastore
domande Kamee Abrahamian, Ilenia Caleo, Taguhi Torosyan
traduzione Giorgia Ohanesian Nardin, Taguhi Torosyan
note alla traduzione Clark Pignedoli
voci Kamee Abrahamian, Chiara Bersani, F. De Isabella, Simone Derai, Maddalena Fragnito, Jamila Johnson-Small, Ndack Mbaye, Giorgia Ohanesian Nardin, Raffaele Tori, Taguhi Torosyan
pubblicazione Flo Low
cura e produzione Giulia Messia
nel video compare l’opera Ghost Theatre di Vahram Galstyan e Repentance.Variation on themes by Pinturicchio and Raphael (dedicated to Vasily Katanyan) di Sergei Parajanov
prodotto da Associazione Culturale VAN, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Emilia-Romagna
coprodotto da Centrale Fies Art Work Space
con il supporto AtelierSì Bologna, ICA Yerevan, Movin’Up – sostegno alla mobilità degli artisti italiani nel mondo, Spazio Fattoria Milano, DiD Studio Milano
grazie a Studio Azzurro, Luca Chiaudano, Yuri D’Ostuni
Giovedì 24 Settembre – Teatro Fabbrichino

LIVORE Mozart e Salieri

di Vico Quarto Mazzini
con Michele Altamura, Francesco d’Amore, Gabriele Paolocà
drammaturgia Francesco d’Amore
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
scene Enrico Corona, Alessandro Ratti
luci Daniele Passeri
tecnica Stefano Rolla
ufficio stampa Maddalena Peluso
management e distribuzione Theatron 2.0
produzione Vico Quarto Mazzini, Gli Scarti, Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Armunia e Teatri Associati di Napoli/ C.Re.A.Re Campania
Venerdì 25 Settembre – Ex Cinema Excelsior

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