CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO @ Teatro Vascello: un fantasma si aggira fra di noi

Ieri 8 marzo Fabrizio Gifuni ha portato in scena al Teatro Vascello di Roma "CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO", spettacolo che dà corpo e voce alle lettere scritte durante la sua prigionia e al memoriale di Aldo Moro. Come ricorda lo stesso attore, il progetto è nato quando Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro di Torino, gli ha chiesto uno studio di queste carte, così dolorose, umane e politiche. Gifuni ci regala due ore di teatro civile, ma anche di memoria perché ha assolutamente ragione ad affermare che quel corpo e quel fantasma è ancora così presente nel nostro tempo, in cui tutti professano di essere uomini nuovi, mentre i fatti oggettivi dimostrano quanto nulla sia cambiato nella sua essenza.
Torniamo a recensirlo dopo il recente passaggio di CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO a Bologna all'Arena del Sole (leggi la recenzione di Giuseppe Armillotta sulle pagine di Gufetto.press).

Aldo Moro: i giorni della prigionia e il loro Irridente silenzio

Quello che abbiamo di fronte al Teatro Vascello è un oggetto anomalo, per certi versi, che non si può collocare, almeno in apparenza, in alcuna etichetta teatrale: non è prosa e basta, non è narrazione e basta, non è teatro civile e basta. Con il vostro irridente silenzio è un’anomalia e per questo ancora più potentemente deflagrante per chi vi assiste.

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO:da un invito di Nicola la Gioia

Tutto nasce, come racconta Fabrizio Gifuni nella sua introduzione, per un invito fatto da Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino: leggere, studiare le carte di Aldo Moro, carte complesse nei contenuti ma soprattutto nella storia che raccontano.

Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana e artefice con Enrico Berlinguer di un dialogo fino a qual momento impensabile fra i due partiti più importanti d’Italia, la DC e il PCI. Proprio a ridosso di un governo di solidarietà nazionale che prevedeva il coinvolgimento nella maggioranza dei comunisti, viene rapito dalle Brigate Rosse e sequestrato per 55 giorni. Il suo sequestro, come tutti sappiamo, termina con la sua uccisione. Durante la sua prigionia, Moro scrive lettere in continuazione alla famiglia, agli esponenti politici del suo partito e viene interrogato come prigioniero politico: le sue dichiarazioni vengono raccolte in un memoriale. Tutte queste carte sono ritrovate in momenti diversi nel covo di via Monte Nevoso a Milano, la prima volta da Carlo Alberto Dalla Chiesa e i suoi uomini, la seconda volta a seguito di lavori effettuati nell’appartamento. Non sono gli originali, mai restituiti dalle Brigate Rosse, ma sono fotocopie in cui è possibile ritrovare la mano di Aldo Moro, la sua grafia. A testimoniare la veridicità di quelle lettere. Di quelle parole. Che pesano come macigni ancora oggi.

Con il vostro irridente silenzio: l’eleganza semplice di un teatro per la collettività

La messa in scena è semplice: un quadrato di fogli a terra, tutti scritti, delimita lo spazio di un covo, di una prigione dove ci sono altri fogli sparsi, un tavolino, una sedia. Tutto è circoscritto, immutabile, perché sappiamo già come andrà a finire la storia.

Eppure questa semplicissima impostazione scenica ci dà un’idea immediata e lancinante di uno spazio chiuso, fulminea è la sensazione di claustrofobia e pensiamo in un attimo a come si sia potuto sentire un uomo di sessant’anni chiuso lì, costretto a rendere conto delle sue azioni e scelte politiche, a giustificare trent’anni di storia della democrazia di questo Paese. Lo immaginiamo seduto a quel piccolo tavolino, chinato a scrivere perché la sua unica arma erano le parole.

A questa semplicità va associato un altro concetto, oggi più che mai importante: l’eleganza. Tutto è misurato, non ci sono eccessi, stranezze, effetti ricercati. C’è un palco semivuoto, un attore totalmente aderente alle parole e il tutto è sostenuto da un piano luci efficace nel sottolineare i passaggi di senso, di umore, di disperazione. Struggente la luce di taglio finale, caldissima, che illumina un uomo ormai finito, che sa che non ci sono più speranze e che spera di poter capire con i suoi piccoli occhi mortali, “come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”. E mentre vediamo scomparire quest’uomo, come evaporasse in quella luce calda – e speriamo che sia così che è andata, che quella luce ci sia stata davvero – compare sul fondale bianco l’immagine di quei politici, colleghi di partito ai quali Moro si è rivolto strenuamente per la sua salvezza, in una foto in bianco e nero alla commemorazione ufficiale, che si svolgerà però senza il corpo di Aldo Moro per volontà della sua famiglia.

Quel corpo assente non è mai scomparso però, perché è il fantasma che attanaglia la nostra storia democratica, è il sangue che scorre ancora nella nostro presente.

Le parole di Aldo Moro, l’adesione di Fabrizio Gifuni

La sensazione di una responsabilità collettiva è ancora più grande se ascoltiamo e ci lasciamo attraversare dalle parole di Aldo Moro. Lucide, ironiche, sofferenti, risuonano e viaggiano velocemente, ci assalgono e ci lasciano senza fiato. È innegabile che esse costituiscano un documento importantissimo del Novecento, da un lato, dall’altro però sono la testimonianza di un uomo, della sua volontà disperata di vivere e lottare per vivere.

Ecco che le lettere a Zaccagnini, Piccoli, al papa Paolo VI, pur nella loro diversità, sono una richiesta di aiuto ma soprattutto la rivendicazione di un uomo che vuole essere salvato, che chiede disperatamente e rabbiosamente che i politici si muovano, che non permettano lo strazio cui sa di andare incontro. È devastante sapere quanto possa essersi sentito solo, abbandonato e quanto dolore possa avere procurato a lui, un uomo così potente, sapere che le lettere che venivano pubblicate erano considerate la prova di una sua manipolazione, di una sua mancanza di lucidità: soffre all’idea che pensino, loro, i suoi sodali, i suoi colleghi di partito, che è drogato, manipolato. E questa sofferenza la sentiamo tutta come sentiamo la dolcezza, la malinconia e quel lungo addio che pervade le lettere alla famiglia. Una tenerezza e una umanità commoventi, che ci permettono di capire il dramma non solo politico ma soprattutto umano, terribilmente umano che è stato il suo rapimento e la sua uccisione.

Fabrizio Gifuni è un tutt’uno con le parole: il suo corpo è immobile per tutto il tempo ma innervato di energia; alla postura fanno perfettamente da contraltare gesti che tagliano, accarezzano e afferrano l’aria, mentre con la voce accompagna gli spettatori in questo mondo immenso. La sua adesione è totale e lo sforzo cui assistiamo è titanico: non molla mai la presa, non cede un secondo alla fatica, sembra addirittura non prendere fiato. Non assistiamo a una immedesimazione ma all’apparizione di quel fantasma, una epifania che ci lascia stupiti mentre ci attraversa, facendoci tremare e sussultare.

Con il vostro irridente silenzio: quello che resta, quello che è perso

Non possiamo concludere non ragionando brevemente sul senso, se così possiamo dire, di questo evento teatrale. Non è innanzi tutto semplice affrontare, senza sotterfugi o scappatoie patetiche, un corpus di documenti così complesso. La scelta di dire le parole per quello che sono, di lasciarle fluire affidando completamente a esse il compito di riempire lo spazio in ogni sua dimensione raggiunge una vetta di bellezza unica.

Bellezza, sì, perché comunque quello cui abbiamo assistito è teatro, sublimazione della realtà, quindi bellezza alla sua massima potenza. Una bellezza però che ci deve far riflettere a lungo su ciò che questo evento ha significato per la nostra Storia, non solo come evento politico ma anche come evento prettamente umano. Troppe volte dimentichiamo che Aldo Moro era innanzi tutto un uomo e che, come tale, ha affrontato gli ultimi suoi giorni. E mentre lui combatteva per resistere, fuori lo Stato italiano prendeva decisioni, sceglieva la linea dura e cercava di sminuire la portata delle lettere che venivano diffuse.

Si ha la sensazione che tutt* abbiamo perso, anche chi in quegli anni non era ancora al mondo. Ecco perché oggi parlarne, raccontare quel sequestro non è mera commemorazione, retorica spesso vuota per riempire la bocca, ma è innanzi tutto atto civile e atto politico che diventa tale solo attraverso le parole di Aldo Moro. Conoscerle significa sapere, sapere significa non dimenticare, non dimenticare significa essere liber* e pront* per cambiare, o quantomeno cercare di cambiare, questa nostra storia.

 

CON IL VOSTRO IRRIDENTE SILENZIO

Studio sulle lettere dalla prigionia e sul memoriale di Aldo Moro

ideazione e drammaturgia di Fabrizio Gifuni

Si ringraziano
Nicola Lagioia e il Salone internazionale del Libro di Torino
Christian Raimo per la collaborazione
Francesco Biscione e Miguel Gotor per la consulenza storica

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