C’è attesa per questo spettacolo. È palpabile tra il pubblico della platea piena – nonostante le poltrone inevitabilmente vuote a causa delle norme anti–covid. La musica di sottofondo è un vivace rock anni ’60: perfetto per l’ambientazione della vicenda.
Le luci si accendono su due giovanissimi attori: Marcos Vinicius Piacentini e Maria Roveran. Indossano biancheria intima e davanti a loro ci sono i vestiti di scena. Entrano nel personaggio di fronte agli occhi del pubblico. La scena è in linea con il monologo iniziale dei due attori, che rompono la finzione scenica rivolgendosi alla platea: come in un prologo shakespeariano chiedono al pubblico di immaginare, di sopperire alla modestia della scena, alla presenza di pochi attori con la fantasia e si chiedono, anche, chi sono loro, come possono due modesti e giovani attori far rivivere i personaggi di un evento che ha radicalmente cambiato il destino della comunità LGBTQ+ e del mondo occidentale?
La risposta è che i protagonisti dei moti di Stonewall, gli eroi di questa vicenda erano persone normali, giovani come loro e come gran parte delle persone tra il pubblico.
La scenografia è una sorta di altro sipario, che svolge diverse funzioni: ingresso dello Stonewall, schermo su cui proiettare filmati d’epoca e mura domestiche. È una scelta interessante: possiamo interpretare lo Stonewall come luogo in cui si abbandonavano le maschere e si indossavano i panni che più si desideravano, come luogo in cui si andava in scena, abbandonando le ipocrisie del mondo fuori. Inoltre il pubblico non può vedere al suo interno, come i passanti non potevano vedere dentro il locale: lo Stonewall rivive solo nelle parole di chi l’ha vissuto e il pubblico deve fidarsi degli attori e affidarsi alla propria fantasia per immaginarlo.
Lo spettacolo è molto diverso da come ce lo eravamo immaginato: è intimo, sussurrato, incentrato non tanto sui moti, ma sulle persone che li hanno animati, sui protagonisti senza nome che si sono ribellati alle vessazioni di un mondo ipocrita e benpensante, retrogrado e violento.
Ci aspettavamo urla e rivolta, ci siamo trovati dolcezza e ricordi.
Le vicende sono raccontate sotto forma di monologhi: c’è il ragazzo gay che perde i moti perché bloccato nella casa paterna che aveva giurato di abbandonare per sempre; c’è il ragazzo trans che vive di espedienti e vede nello Stonewall la madre che non ha avuto; c’è la donna lesbica che per prima sembra essersi ribellata alla polizia quel fantomatico 28 giugno 1969 e che la storia non ricorda; c’è Steve che la sera del suo diciottesimo compleanno va allo Stonewall come Mary.
Degna di nota è la ricerca storica alle spalle di questo spettacolo, anche per quanto riguarda il materiale audio-video. Da citare è anche l’interpretazione di Marcos Vinicius Piacentini – soprattutto nei panni di Mary. Non possiamo non rilevare, forse, una sovrabbondanza di parole, anche se non si sono mai rivelate difficili da sostenere. Buono l’uso delle musiche, disegno luci molto semplice, molto curati gli abiti. La drammaturgia di Margherita Mauro è molto semplice, anche se mai banale. Nel complesso la regia di Michele Rho è intima, raccolta, incentrata sulle parole dei personaggi.
L’invito a “uscire fuori” (COME OUT!) diventa quasi un messaggio subliminale, un suggerimento insistente di Alice nel paese delle Meraviglie, di Dorothy del Mago di Oz, di Trilly di Peter Pan: insomma delle personalità fittizie che firmavano i registri dello Stonewall Inn, per proteggere l’identità degli avventori in caso di retate della polizia. “Non usare il tuo vero nome” si dicono tra loro, “COME OUT!” urla Dorothy. E tutti i personaggi lo fanno: rivendicano la loro identità e il loro orientamento davanti alla polizia e davanti al pubblico che non può che ascoltare.