CENACOLO 12+1 @ Dramma Popolare di San Miniato. Il teatro liquido di Michele Sinisi

Una grande ventata di novità, già dallo scorso anno, ha sparigliato la tradizionale struttura del Dramma Popolare di San Miniato, ringiovanito e riattualizzato dal lavoro d’avanguardia di Michele Sinisi, che ha fatto virare un’istituzione tradizionale di teatro del sacro in direzione di fruibilità, accessibilità, nuovi canoni estetici e performativi. Così lo spettacolo in scena per questa edizione, CENACOLO 12+1, si pone da subito come nuovo: si riflette su Leonardo (cinquecento anni sono passati dalla morte del genio, e miriadi di celebrazioni popolano la penisola), meglio sul suo più incisivo correlativo oggettivo, l’affresco del Cenacolo. È in scena, il pubblico lo intravede, lo decifra, ma avvolto da una nuvola di nylon e sospeso sulle teste degli attori. Ne aspettiamo lo svelamento. Non avverrà mai, e questa mancata epifania è già una prima cifra per uno spettacolo che si regge su un mondo liquido, incapace di mettersi in collegamento con il sacro, il mana numinoso che l’affresco di Leonardo fa palpitare e che noi, oggi, non siamo più attrezzati per ammirare.
Il titolo, infatti, insiste su questa frantumazione dei canoni (Dan Brown ne avrebbe apprezzato l’aspetto enigmatico, la formula magica misteriosa dell’addizione): che cosa abbiamo davanti? Neppure un testo, perché la drammaturgia è volutamente desultoria, disomogenea, inconcludente: un canovaccio, diremmo, visto che la scrittura è comunque frutto di Sinisi e del suo collaboratore Francesco Asselta, e le scene si giovano del lavoro estremamente contemporaneo di Federico Biancalani.

Un canovaccio di dodici attimi, dodici scene, dodici frammenti: un tempo misto fulminante nelle ellissi, che ci conduce, a salti, da un istante all’altro della lunga storia del capolavoro. Una hostess incerta ed esitante gioca, contro sua voglia si direbbe, il rischio di tentare il collegamento. Ma in realtà al pubblico viene richiesto proprio questo, il coraggio e la pazienza di lasciarsi spiazzare, di non tentare di capire, di abbandonare il codice comune della deduzione per accettare che, è vero, il teatro potrebbe essere gioco. E lo è: si alternano attimi estremamente pop, per linguaggio estetico e visuale, un impasto contemporaneo di accenti e dialetti e modi di dire, un’estetica da fumetto, talvolta, esagerata e buffa, negli esiti migliori umoristica, come il momento splendido in cui le due prostitute si confrontano sul valore del Cenacolo con tempi teatrali impeccabili, immagini spiazzanti (una delle due si depila le gambe esaltando l’arte leonardesca) ed un gramelot che svaria dal napoletano al brasiliano con una freschezza e un’autenticità rare.

Questa festa sregolata e apparentemente nazional – popolare, condita da una colonna sonora adrenalinica dove Jimi Hendrix la fa da padrone, allude, però, con sottile insistenza a temi base che vengono reiterati, e che costituiscono lo scheletro di questo testo liquido, ondeggiante, dotato comunque di  propria sostanza. Il tema base è la sacralità inattingibile, alla quale non riusciamo più ad avvicinarci (per vedere il Cenacolo, rappa la hostess, ci vogliono mesi di prenotazioni, code e chiamate al call center, e forse non bastano: una Via Crucis che simboleggia la nostra profonda incapacità di cogliere il sacro, quel sacro, oggi). Altro tema è il genio, il genio che sovrasta tutto, l’unicorno, il mostro: l’invidia glaciale che sicuramente Donato da Montorfano, autore della crocifissione posta dirimpetto al capolavoro leonardesco che nessuno guarda mai, provava o avrebbe provato per il fortunato rivale: lo sconcerto di chi, artista,  si è visto lampeggiare davanti Jimi Hendrix, o Glenn Gould, o Lucio Dalla, e ha dovuto comprendere i limiti del proprio talento.  E, così sottolineato da risultare impercettibile, il tema base riguarda con evidenza come si produca un’opera di teatro, oggi.

Assemblando da vari linguaggi, a maglie larghe, un procedimento per osmosi che non scarta quasi niente, ma che mette a frutto tutto per incrociare l’arte e l’utenza, il capolavoro e il fruitore, il noi qui oggi e il capolavoro là ieri. Il Cenacolo non si svela – ma lo intravediamo. Leonardo, il tredicesimo evocato, entra in scena in abiti storici, ma si adegua al mood contemporaneo e non si rifiuta di partecipare alla finale coreografia. L’arte, incomprensibile e velata dal suo mana sacro, non è irraggiungibile. E non incombe soltanto su di noi, senza entrare in comunicazione. A brani, per ellissi, a salti – in mille dialetti, in costumi improbabili, inframmezzata da dubbi e incredulità – la sua ombra, come quella dell’incredibile facciata del Duomo di San Miniato che fa in certo modo parte della scena, ci tocca.  Si può riprodurre il menu dell’Ultima Cena, domanda il cardinale preoccupato di trasmettere al suo cuoco la ricetta esatta della salsa charoset, nella quale Cristo e gli Apostoli intinsero il pane azzimo? In cucina non c’è la frutta giusta, ma sì. Con ingredienti inesatti, imperfetti, alterati – però la risposta è sì. L’arte vive, cambia e si riproduce. Bellissimo messaggio di speranza, che rinnova e riproduce un Teatro del Sacro degno di nuove radici nella contemporaneità.

Info:
CENACOLO 12+1
drammaturgia Francesco M. Asselta e Michele Sinisi
regia Michele Sinisi
con Stefano Braschi, Giuditta Mingucci, Stefania Medri, Donato Paternoster, Nicolò Valandro e con gli allievi del corso di perfezionamento del Teatro Di Roma Alfredo Calicchio, Gabriele Cicirello, Aurora Cimino, Giulia Eugeni, Francesca Fedeli, Marisa Grimaldo, Eugenio Mastrandrea, Camilla Tagliaferri
scene Federico Biancalani
costumi G.d.F. Studio
disegno luci e direzione tecnica Rossano Siragusano
voce registrata Tamara Fagnocchi
aiuto regia Nicolò Valandro
Elsinor Centro di Produzione Teatrale per Istituto Dramma Popolare di San Miniato – In collaborazione con Teatro di RomaFoto Danilo Puccioni, Francesco Sgherri

Piazza Duomo, San Miniato
18 luglio 2019

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