CASA DI BAMBOLA @ Teatro Duse: del vivere in una bolla

In scena al Duse di Bologna uno dei drammi ottocenteschi per antonomasia: CASA DI BAMBOLA di Henrik Ibsen che abbiamo recensito a Roma nel passaggio al teatro Vascello. Questa pièce di ampio respiro, datata 1879, segna un punto di svolta nella storia del teatro occidentale, in quanto iscrive nel tessuto narrativo una prospettiva storica che offre squarci di realtà culturale e sociale dell’epoca.

Protagonista è Nora (Valentina Sperlì), madre di tre figli e, da otto anni, sposa dell’avvocato Torvald Helmer (Roberto Valerio), con il quale vive un’esistenza convenzionalmente borghese, circoscritta in un’atmosfera di febbrile e artefatta serenità che cela un desolante deserto emotivo e una tragica incapacità di reale comunicazione. Nora, intrappolata nell’inerzia e nell’inettitudine, oscilla fra aspirazione all’emancipazione emotiva ed indisposizione ad abbandonare gli agi e le comodità che albergano in un’esistenza angusta, tetra e, in primo luogo, fittizia ed illusoria.

Va riconosciuto alla messa in scena di Roberto Valerio un duplice merito: l’asciugatura del testo, tramite una serie di tagli finalizzati a spogliarlo da ornamenti retorici e ad alleggerire la greve patina ottocentesca, e la fedele restituzione delle tragiche suggestioni socio-culturali offerte da Ibsen.
Il regista non tradisce il testo, bensì lo arricchisce, dotandolo di una carica moderna e innovativa. Il complesso sostrato culturale, sviscerato nella pièce, può essere analizzato da due punti di vista: quello sociologico, riguardante le granitiche certezze di una borghesia stagnante, turpe e abietta, circoscritta in un menzognero recinto di benessere e comodità, e quello psicologico, che scava nelle anime dei protagonisti palesandone gli inganni, le ipocrisie, i sotterfugi, le debolezze; in sostanza, la non-esistenza.

Sono tre i discorsi macroscopici approfonditi nello spettacolo: l’angosciosa condizione di sudditanza della donna, il tormentoso e imperituro oscillare fra l’utopia di una felicità autentica e il timore di spezzare l’edulcorata inerzia borghese e, infine, l’assenza di comunicazione.
“Siamo sposati da otto anni. Non t’accorgi che noi due, tu ed io, marito e moglie, oggi per la prima volta stiamo parlando di cose serie? […] Da quando ci siamo conosciuti, non abbiamo mai avuto un colloquio su argomenti gravi.”
Con queste parole, sul finale, la protagonista deflagra in un ardito impeto vitale: Nora, magistralmente interpretata da Valentina Sperlì, è una donna fragile, confusa e profondamente insicura; si finge felice nella “prigione familiare” in cui è costretta, tentando interiormente di tradurre abusi psicologici e oltraggi verbali – spesso suo marito la apostrofa con sgradevoli appellativi quali “lodoletta”, “scoiattolino”, “passerotto” – in premurose manifestazioni di affetto e dolcezza.

Attraverso un’efficace gestualità, l’interprete palesa ad una ad una tutte le sfaccettature di questo complesso personaggio: ne sottolinea la vacuità nell’atto di non prendersi sul serio, ne giustifica l’inconsapevole egocentrismo come istintiva autodifesa di fronte alla violenza subita, pone l’accento sulla corrosiva stasi alternata a nervosi spiragli di introspezione e, da ultimo, esprime il passaggio da un recinto di menzogne a una cosciente autodeterminazione del proprio destino.
Se Valentina Sperlì racconta il suo personaggio attraverso i gesti, Roberto Valerio rivela il suo attraverso un accurato uso della voce e una sapiente variazione di toni: Torvald, avvocato in vista di un salto di carriera, è il rappresentante di una borghesia ancorata su dogmi e certezze granitiche; ottuso e apatico, intrattiene rapporti umani di carattere meramente utilitaristico, rivelando ad ogni passo la propria intrinseca mediocrità.

Il regista scandaglia questo personaggio concentrandosi principalmente su due aspetti: l’attitudine coercitiva nel rapporto con la moglie, concepita alla stregua di un burattino, mero ornamento che completi l’involucro borghese, e il grossolano arrivismo negli affari.
Ciò che preme al regista è mostrare come il cerebralismo che corrode i due personaggi si risolva in due direzioni diametralmente opposte: la difesa della propria dignità, nel caso di Nora, e l’incondizionato asservimento alle logiche dell’apparenza nel caso di Torvald. “D’ora innanzi non si tratta più della nostra felicità, ma soltanto di salvare i resti, i relitti, le apparenze…”.
Spendendosi molto nella certosina esplorazione dell’interiorità dei protagonisti, il regista tralascia un’altrettanto meticolosa caratterizzazione degli altri personaggi – il dottor Rank (Massimo Grigò), il procuratore Krogstad (Michele Nani) e la bambinaia Anne Marie (Carlotta Viscovo): li abbozza, li tratteggia, ne accenna il rapporto con i principali, ma non riesce a delinearne un adeguato ritratto psicologico e sociale.

L’altro elemento di forte impatto è la scenografia: il luogo dove i personaggi vivono i loro tormenti interiori è un ambiente familiare ordinato, luminoso e rassicurante, nonché elegantemente arredato; ciò nonostante trasmette un’angosciante sensazione di vuoto, un’inconsistenza quasi spettrale. Le pareti sbilenche e gli accessori caricaturali conferiscono alla scenografia un carattere allucinatorio, illusorio e “fantoccesco”, che al meglio introduce lo spettatore in un’atmosfera onirica dove tutto è artificiale, falso e posticcio.
In sostanza, si può affermare che questa messa in scena del lavoro più noto di Ibsen, curata da Roberto Valerio, sia un elaborato ed efficace racconto di un iter evolutivo descritto in chiave espressionista e psicoanalitica, un appello di portata tanto tragica tanto utopistica, abile a penetrare tanto lo spettatore di ieri quanto quello di oggi.

info:
TEATRI DI PISTOIA

Valentina Sperlì, Roberto Valerio

di HENRIK IBSEN

con VALENTINA SPERLÌ, ROBERTO VALERIO, MICHELE NANI, MASSIMO GRIGÒ, CARLOTTA VISCOVO

regia ROBERTO VALERIO

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