CAFFETTIERA BLU @ Angelo Mai: la dissolvenza del lessico familiare

Gli spazi di ricerca sulla drammaturgia contemporanea non si si sono affatti spenti nella Capitale, ma fioriscono, tutt’altro che inaspettati, nel brulicante Angelo Mai di Roma, spazio non convenzionale alle spalle delle Terme di Caracalla, dove è andato in scena “CAFFETTIERA BLU, uno dei testi di Caryl Churcill all’interno di “NON NORMALE, NON RASSICURANTE. PROGETTO CARYL CHURCHILL” a cura di Paola Bono (studiosa dell’autrice), per la regia di Giorgina Pi (una coproduzione Angelo Mai-369 gradi).

L’autrice britannica Caryl Churcill è genitrice e fautrice di quell'idea di teatro “non normale, non rassicurante” le cui affermazioni di principio sono affisse in un manifesto appeso alla parte del foyer: “Chi scrive drammi non dà risposte. Pone domande” (vedi a fianco).
Domande che nella produzione della Churcill hanno ricompreso battaglie e sfide su temi di teatro “civile" e di denuncia su femminismo, aborto, ecologia e razzismo.
Temi attualisssimi, affrontati dall’autrice già diversi anni fa con una incredibile capacità predittiva di domande (più che di risposte) che rendono il punto di vista della Churcill più che mai moderno e culturalmente elegante nella ricerca espressiva dei suddetti argomenti (oltre ad essere la stessa autrice tuttora in attività, seppure la produzione sia poco conosciuta qui) e per questo meriterebbe un maggiore approfondimento sui nostri palchi, soprattutto per le suggestioni drammaturgiche innovative e originali (e non meno per le riflessioni esistenzialistiche e socio-politiche piuttosto argute) che anche un testo come questo riesce a suscitare, senza per questo rivolgersi solo ad un pubblico di soli esperti.

 

La Compagnia Bluemotion, sorta all’interno del Collettivo Angelo Mai ci propone CAFFETTIERA BLU rispettando una delle volontà della scrittrice: quello di costruire la scena partendo da un elemento fisso, un tavolo cui si appropinquano di volta in volta gli attori – sei in tutto (Sylvia De Fanti, Gian Marco Di Lecce, Mauro Milone, Giulia Weber, Laura Pizzirani, Simona Senzacqua)- mescolati al pubblico disposto accuratamente intorno ai quattro lati del desco.

Una voce fuori campo (Marco Cavalcoli) scandisce le scene come fossero dei capitoli. Sospesa un’aria fumosa e surreale; le luci sono puntate sul tavolo e sugli attori che vediamo di volta in volta sedersi lungo ogni lato, cogliendone espressioni trasversali o dirette, occhiate fugaci o semplicemente le loro voci oltre le rispettive spalle.
Si dipana una trama non lineare, ma non per questo priva di logica quanto piuttosto sinistra: ambientazione inglese in un’epoca indefinita.
Un inquietante Mauro Milone, (dall’aspetto così pulito e composto da sembrare più un serial killer sotto mentite spoglie) interpreta Derek, un imbroglione che adesca alcune donne più anziane spacciandosi di volta in volta per il figlio che queste avevano abbandonato o dato in adozione a suo tempo, quando l’aborto non era permesso, così da ricattarle e ricavarne dei soldi. Quest’ultime sono tutte diverse fra loro e tutte preoccupate di mantenere un segreto che le tormenta da sempre.
Al tavolo si susseguono gli incontri fra Derek e la sua fidanzata (una compiacente ma non troppo, Laura Pizzirani) e con le rispettive madri (addirittura due insieme per un più che sfacciato doppio imboglio). Ma di lui conosceremo anche la vera madre (una Federica Santoro che, seppure per pochi minuti ci lascia senza fiato) chiusa in una casa di riposo e malata di Alzheimer, che non perde tempo nel redarguirlo.

La regia tradisce una certa e voluta (crediamo) rigidità nell’interazione fisica fra gli attori in scena, complice una drammaturgia che fonda tutto sull’interazione verbale e sulla resa del contenuto drammaturgico piuttosto che sul movimento (salvo quello di avvicinamento o allontanamento al tavolo e di vestizione in scena).
Essenziale poi l’attenzione del pubblico sull’elemento saliente della piéce, ovvero l’introduzione, dapprima graduale, poi sempre più incisivo, delle parole “Caffettiera” e “Blu” del titolo, all’interno dei dialoghi, serratissimi, fra i personaggi, parole private però del loro significato originale. I due termini vengono verbalizzati e coniugati, usati come aggettivi o nomi, coprendo i significati spesso intuibili, spesso reinterpretabili delle parole dette. L’effetto indotto nel pubblico è quello del riso, ma il senso della scelta è tutt’altro che risibile.
C’è infatti, in CAFFETTIERA BLU, una dissolvenza di parola e significato che sfocia poi in decostruzione o piuttosto in una sostituzione linguistica del parlato che richiama un’altra decostruzione e sostituzione, quella della veridicità del rapporto familiare che avviene proprio intorno al tavolo (locus per eccellenza del confronto familiare classico). Un tavolo che diviene qui sede di un vero e proprio inganno a cui partecipano diversi "colpevoli" (o persone che si sentono tali, tutti più o meno moralmente accettabili) e tutti facenti parte di un corpus attoriale unico (non c’è un vero protagonista, ma l’opera ci appare più come corale che concentrata solo su uno dei personaggi, forse per la quasi del tutto eguale intensità recitativa).
Un inganno, dunque, è l’elemento di fondo che accumuna i personaggi e li allontana al tempo stesso, una falsità umana che rende il loro stesso linguaggio falso e sostituibile con parole di qualsivoglia senso, al punto che le stesse parole ed il senso dei discorsi, ormai sul finale completamente fagocitati dai termini “Caffettiera” o “blu” si frammentano, si spezzano, e le parole quasi si boffonchiano come in un conato soffocato di senso, così come si smarrisce nell’aria il fiato e insieme l’illusione di una verità tra i rapporti umani che i personaggi stessi non possono perseguire.

Privo com’è di una morale didascalica (ma non di un giudizio sottesissimo sul fatto che una maggiore possibilità di disposizione del proprio corpo avrebbe forse reso queste donne meno esposte alla possibile truffa), questo spettacolo compie l’intento premesso dalla Churcill: pone domande sulla comunicabilità distorta fra esseri umani, sulla loro supposta fragilità e vacuità, così come sono vacui i rapporti sui quali essa si fonda in una società non del tutto libera di scegliere.

Quanto siamo reali nelle nostre affermazioni, se quanto diciamo è falsato dal nostro intento? Quanto le nostre parole sono prive di significato a volte, da poter essere sostituite con altrettante di vacuo significato?

Quando costruiamo rapporti malati, privi di coerenza morale, è la coerenza verbale la prima vittima, e la balbuzie e l’interruzione sistematica della parola non è altro che lo smarrimento di senso del discorso stesso.
E se l’Immaginazione, come afferma Churcill non deve avere gli stessi limiti della Conoscenza, ecco allora che CAFFETTIERA BLU ci lascia un pensiero: il teatro deve immaginare senza cautele, deve osare mezzi espressivi non convenzionali spesso fraintesi (il riso del pubblico), anche sfiorando la perdita di senso della parola quale sintomo della progressiva e più che mai contemporanea perdita di senso e verità dei rapporti fra esseri umani.

Info:
C A F F E T T I E R A B L U
di Caryl Churchill
(traduzione di Laura Caretti e Margaret Rose)
uno spettacolo di Bluemotion
regia Giorgina Pi
con Sylvia De Fanti, Gian Marco Di Lecce, Mauro Milone, Laura Pizzirani, Federica Santoro, Giulia Weber
voce fuori campo Marco Cavalcoli
costumi Gianluca Falaschi
luci Giorgina Pi/Marco Guarrera
dimensione sonora Valerio Vigliar
suoni Michele Boreggi/Paolo Panella 
tecnico luci Andrea Gallo 
ufficio stampa Benedetta Boggio
una produzione BLUEMOTION/ANGELO MAI in collaborazione con 369gradi
all’interno di NON NORMALE, NON RASSICURANTE. PROGETTO CARYL CHURCHILL a cura di Paola Bono con Angelo Mai

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