B/RIDE @ Teatro Studio Uno: “Questo matrimonio non s'ha da fare”

Fino al 7 maggio è andato in scena al Teatro Studio Uno, B/RIDE, scritto e diretto da Giacomo Sette, ideato e interpretato da Martina Giusti con Azzurra Lochi e Simone Caporossi.

Sulla scena nuda, bagnata da una luce calda, fioca e pesante, circoscritta, danzavano, abbracciate, due marionette viventi: gli sposi. Elegantemente vestito lui, candida e casta in un modestissimo abito nuziale lei, erano manovrati entrambi dai severi comandi fisici di una mima mugugnante, il cui brontolare su partiture fisiche riecheggianti comiche da cinema muto, coinvolgeva e divertiva il pubblico. Gli sposi, dunque, venivano fatti danzare, accompagnati da una musica che accoglieva lo spettatore trascinandolo lì, all’interno di quell’abbraccio meccanico e straniante dei due coniugi novelli.

Dopo aver fatto accomodare il pubblico, la narratrice (“Mangiafuoco” – deus ex machina) manovrando i due attori, finalmente parlava. Raccontava del giorno delle nozze, dell’orgoglio di lei, “B.”, di essersi sposata a soli venticinque anni: un primato, rispetto di antiche tradizioni. La preparazione accortissima del lieto giorno, il controllo assoluto su ogni dettaglio, la volontà auto-imposta di soddisfare aspettative familiari e sociali. Il tradimento di lui, proprio durante il banchetto, con Marika, la cui immagine di donna tatuata ha esemplificato, alquanto banalmente, la trasgressione, la fuoriuscita necessaria dell’uomo da quelle claustrofobiche convenzioni. Il tradimento di lei con il bagnino della piscina del resort, per ripicca. La furia della sposa, la rissa con Marika, i pugni al suo sposo, il morso: riscoperta animale del sapore di lui, il sesso: ferino e rabbioso. “B. Andiamo a casa”. Lo sposo, sul finale, si riumanizzava, pronunciando queste sole parole. La sposa, baciandolo, scappava fuori scena. Lui dietro di lei, sganciati entrambi dalle grinfie della mima parlante.

Tutta la vicenda è stata raccontata, in un lungo monologo, dalla burattinaia, che metteva in immagine la sua narrazione attraverso i corpi degli altri due attori, muovendoli. Solo allo sposo è stata concessa voce, pronunciando unicamente quella breve frase.

Curioso che alla sposa è stato intitolato lo spettacolo: Bride sposa; B/RIDE, “B.”, il nome di lei, cavalca le violente emozioni che si è trovata a provare il giorno del suo matrimonio o ne è cavalcata, cavalcare “B.” (“Quella che vogliamo creare è una mappa, appena percettibile per l’occhio, della complessità e vastità delle emozioni. Microscopica, infinitesimale, cavalcata e condizionata dal Fool narrante, l’emozione si muove per frammenti nella scena. (…) uno spazio per le sole immagini stimolate dalla parola e dall’interpretazione e per le microazioni dei pupazzi. (…) Un’immagine dentro cui occhio ed emozione possono perdersi (…)” scrive Giacomo Sette, regista, sul foglio di sala) o ancora: B.”-Ride, ossimoro perché sul volto della sposa, Azzurra Lochi, del sorriso non c’è mai stata ombra.

Per questo assolutismo nominativo che pone in decisa predominanza la sposa (in qualsiasi modo si voglia leggere il titolo) ci si sarebbe aspettati coerentemente centralità di questa nella realizzazione scenica. La sposa invece, a cui non è mai stata data parola (elemento che pure sarebbe potuto essere di grande potenza), era quasi sempre trascurata e disposta dal Fool di spalle al pubblico o supina, dunque invisibile a tutti quegli spettatori che non si trovavano in prima fila.

Lo sposo invece era quasi sempre in piedi, col volto visibile al pubblico, risultando non solo molto più potente fisicamente ma anche in presenza costante. Nel racconto della narratrice i punti di vista di entrambi i coniugi emergevano democraticamente in egual misura. È stato inoltre lo sposo a compiere sul finale, l’unico gesto che nitidamente dichiarava le intenzioni registiche e contenutistiche espresse nelle righe di presentazione: dopo essersi, per primo, sfilato la fede ha seguito “B.” a casa ri-conoscendola finalmente, privatosi del simbolo/maschera che svelava quella verità animale prima celata sotto convenzioni sociali. È lo sposo ad averlo fatto per primo, non la sposa. Al contrario però si è letto “Una vera e propria parabola in cui una sposa, davanti all’evidenza di un tradimento, deciderà di distruggere tutto ciò che aveva progettato mettendo in discussione convenzioni, famiglia, “bon ton”. Farà a pezzi l’immagine della “sposa modello” per scoprire una nuova sé e trascinerà in questo vortice anche il suo uomo (…)”

Perché, se questa avebbe dovuto essere la prospettiva, è stato l’uomo a liberarsi del costume di sposo, gettando la cravatta, prendendo l’iniziativa, lui, non lei, di lanciare la fede? Perché non è stata lei ad eliminare i segni della convenzione? Tutto ciò che la sposa ha deciso di fare è stata conseguenza della condotta dello sposo: ha tradito perché lui l’aveva già tradita; ha abbracciato la libertà della trasgressione perché è lui ad averne sentito prima la necessità (cfr. Marika la tatuata); è riuscita a riconoscere l’autenticità del legame al di là del matrimonio ma è stato lui per primo, sul finale, a togliersi la fede; è uscita di scena, baciandolo, dopo che lo sposo l’ha invitata ad andare a casa. In base al testo e in base alla costruzione registica delle dinamiche relazionali “B.” è sembrata una donna disperata, in preda ad un attacco d’isteria per colpa di un neo marito donnaiolo che, proprio per quelle costrizioni sociali di cui effettivamente non riesce a fare a meno, si rifiuta di lasciare. “B.” è risultata zerbino di lui e di quelle stesse convinzioni. La ripicca del tradimento, compiuto col bagnino, è patetica. La moglie, ubbidiente, torna dal marito: non per il superamento di una certa mentalità, ma perché, proprio in virtù di quella mentalità, non riesce ad accettare il fallimento di un matrimonio terminato il giorno delle nozze. Non è sempre furbo leggere le note di presentazione prima della visione dello spettacolo. Possono creare appetiti destinati a rimanere inappagati.

La regia ha voluto far parlare un mimo. Nel momento in cui dal mugolio si è passati al verbo la magia è venuta meno. Il difetto non stava nell’interprete, Martina Giusti. Il difetto era la parola stessa, il testo. Approssimativo da un punto di vista strutturale e nella costruzione della vicenda, banale e ripetitivo sul piano linguistico e lessicale. Inoltre, quando entrava il racconto, si riduceva al minimo il rapporto fisico tra burattinaia e burattini, trasformando i due manichini in mera tappezzeria.

Centro dell’attenzione ottica dello spettatore: il neo marito, Simone Caporossi. L’efficacia della sua figura e il bios scenico dei suoi nervi costretti all’immobilismo, l’hanno reso certamente il migliore in scena. Evviva lo sposo!

Visto il 5 maggio 2017

Info

scritto e diretto da Giacomo Sette

ideato e interpretato da Martina Giusti

con Azzurra Lochi e Simone Caporossi

collaborazione Anonima Sette e Martina Giusti

aiuto regia Azzurra Lochi

contributi al testo Martina Giusti

musiche Luca Theos Boari Ortolani

brano inedito Alice Giorgi

video Fabio Romanelli

foto Manuela Giusto

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