Nel lontano 1947, durante la stagione inaugurale del Piccolo Teatro di Milano, Arlecchino servitore di due padroni fu un grandissimo successo: Giorgio Strehler aveva trovato un testo perfetto per rivisitare la Commedia dell’Arte e, da allora, il suo Arlecchino è entrato a pieno diritto nella storia del teatro nazionale, divenendo un vero spettacolo di tradizione.
Ora torna in scena nella versione di Valerio Binasco, fino al 23 febbraio 2020 al Teatro Argentina di Roma.
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L'ARLECCHINO di Binasco e Streheler a confronto
È chiaro, dunque, per chi il teatro lo conosce, lo frequenta, che la tentazione di paragonare la versione di Valerio Binasco all’edizione strehleriana è forte, quasi istintiva. E infatti bisogna ammettere che di primo acchito si rimane piuttosto straniati: non c’è più la piacevole leggerezza né la comicità dai ritmi perfetti delineati dalla regia di Strehler. Valerio Binasco dal canto suo rompe gli schemi in tutti i sensi: innanzi tutto, rinuncia alla Commedia dell’Arte, quindi scompaiono le maschere e i costumi tradizionali. Poi ci allontana dalla Venezia del Settecento per trasportarci in una città novecentesca, in cui la classe media ha ormai raggiunto un ruolo centrale e cresce attraverso il lavoro e i matrimoni combinati con il migliore “offerente”.
È un’Italia, quella inscenata in questo Arlecchino, che sembra priva di lucentezza: l’atmosfera è a tratti profondamente grigia, malinconica. Il testo di Goldoni, un classico che lo stesso regista afferma nascondere “una tipologia umana di vecchio stampo, l’Italia povera ma bella di sapore paesano e umilmente arcaico”, viene dilatato nei ritmi e nei possibili sensi. La giovialità goldoniana si tramuta in una leggerezza pensosa, a volte ingombrante.
Goldoni diventa un mezzo per parlare di una società ancora profondamente divisa, che vive tensioni sommerse ma potenti: i vecchi dominano i giovani, stabilendone il futuro, i padroni hanno il diritto di frustare i servitori, umiliarli fino all’eccesso, le donne sono costrette ad assentire e obbedire al volere degli uomini.
ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI: personaggi che rivendicano dei diritti
In questo clima così arcaico, citando proprio il regista, le maschere cadono e ci troviamo di fronte a personaggi che rivendicano i loro diritti: Beatrice, interpretata da una ottima Elisabetta Mazzullo, vuole essere libera dal controllo maschile e per questo rinuncia alla sua femminilità e si traveste, consapevole che se non lo facesse non potrebbe mai affrancarsi; Smeraldina, la servetta furba, diventa la coscienza di un mondo, quello dei servi, che vede tutto, patisce tutto ma sa anche alzare la testa per difendere se stesso o i padroncini innamorati, dimostrando una onestà e un’etica che i padroni sembrano spesso dimenticare.
I padri allora appaiono ancora più oppressivi e terribile è la scena di Pantalone che insegue, cintura alla mano, la figlia Clarice, colpevole di rifiutare il vecchio promesso Federigo, incaponendosi in un amore nuovo, giovane, quello per Silvio. Ancora più agghiacciante il momento in cui, fuori scena, si sente il rumore delle cinghiate e il pianto della giovane.
BINASCO: Arlecchino un servo originale
Binasco non nasconde nulla: i personaggi che delinea hanno sfumature e colori profondamente umani, quasi troppo umani. E non è un caso che le risate – che ci sono sia chiaro – siano risate ironiche, a denti stretti. Lo stesso Arlecchino, motore centrale dell’azione, è un servo originale: non ha nulla dei lazzi, delle acrobazie, della danza leggera della maschera di Strehler.
Qui Arlecchino ha un nome, Pasquale, una storia vera, che viene spiegata per la prima volta a noi spettatori. Pasquale viene chiamato Arlecchino perché le frustate dei padroni gli hanno ridotto la schiena a una sequela di segni e chiazze, che ricordano proprio il vestito colorato di Arlecchino.
Pasquale: un nome per definire un personaggio nuovo, un servo ancora goffo, imbranato, ma anche profondamente malinconico, dolente, che si barcamena fra i due padroni non per furbizia, ma per necessità. Avere due salari è la sua giustificazione, avere due salari il leit motiv che ripete ogni volta che deve farsi forza per proseguire un’impresa titanica.
I lazzi e gli escamotage di Arlecchino assumono un altro significato: la famosa scena del doppio pranzo, che in Strehler era un congegno perfetto di acrobazie, ritmo e ascolto reciproco in scena, sembra ora una tortura, ogni passo diventa sempre più affaticato e il pubblico non può che provare tenerezza per questo povero Cristo che cerca di sopravvivere come meglio può.
Natalino Balasso, con la sua espressività, la sua voce studiatamente strascicata, il suo fare pensoso rende al meglio questo Arlecchino tutto umano, che cerca un riscatto finale nel matrimonio con Smeraldina, un matrimonio però che, mentre i padroni festeggiano la ritrovata serenità, sembra impossibile di fronte a una indifferenza generale che raggela.
Valerio Binasco ha creato uno spettacolo di altissima qualità, dove tutto, dall’impianto di teli dipinti che calando dall’alto cambiano la scena, alle luci disegnate con malinconica precisione, all’interpretazione efficace dell’intero cast, contribuisce a raccontarci un contesto meschino, stratificato che in fondo percepiamo così tanto perché sappiamo che questa Italia non è così tanto lontana da noi.
Arlecchino servitore di due padroni
di Carlo Goldoni
con (in ordine alfabetico) Natalino Balasso, Fabrizio Contri, Matteo Cremon, Lucio de Francesco, Michele Di Mauro, Elena Gigliotti, Carolina Leporatti, Gianmaria Martini, Elisabetta Mazzullo, Ivan Zerbinati
regia: Valerio Binasco
scene: Guido Fiorato
costumi: Sandra Cardini
luci: Pasquale Mari
musiche: Arturo Annecchino
regista assistente: Simone Luglio
assistente scene: Anna Varaldo
assistente costumi: Chiara Lanzillotta
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale