ANTIGONE @ Teatro Fabbricone di Prato: ritorno alla tragedia classica

Dopo due anni di lavoro per curare traduzione ed adattamento, Massimiliano Civica (vedi l’intervista di Susanna Pietrosanti) torna alla regia con Antigone, uno dei classici della tragedia greca firmata Sofocle. La prima assoluta in scena al Fabbricone di Prato per la produzione della stessa Fondazione Teatro Metastasio della città ha nuovamente catapultato il pubblico nel V secolo a.C. in una Grecia che nello spazio scenico viene solo evocata. Rileggere il testo originale con gli occhi di Civica, in veste di traduttore e di regista, significa superare la lettura tradizionale del profondo dissidio tra ragion di stato e coscienza individuale. Parteggiare unilateralmente per l’eroina tebana non è più scontato.   

La vita civile e politica nella Grecia classica si svolgeva nell’agorà, fulcro e anima della democrazia nella polis. E i temi dibattuti 2500 anni fa restano ancora oggi capisaldi della dialettica democratica moderna. Pertanto è assolutamente superfluo contestualizzare una tragedia che finora ha spesso subito il destino del melodramma, fatto dalla contrapposizione tra un bene, per cui il pubblico parteggia insindacabilmente, e un male, sua perfetta antitesi. Laddove c’è confronto, anche aspro, si concede spazio alla luce per lasciare la possibilità al pubblico di assistere, valutare, interrogarsi. Una luce che definisce così i confini di un’agorà che non è tanto quella tebana ma è quella dove si affrontano le intime e contrastanti nature dell’anima umano.

E’ solo ed esclusivamente in questo spazio che possono svolgersi le azioni con una precisa e attenta geometria di ingressi ed uscite che conducono gli attori a sistemarsi sul fondo buio del palcoscenico quando il loro contributo nell’”agorà” non è richiesto. L’unico che ne viene perennemente escluso è Polinice che senza ombra di dubbio resta comunque il traditore, il voltagabbana. Unica certezza nel confronto tra i personaggi, il suo fantoccio a lato del ring di luce con una divisa da repubblichino definisce in maniera precisa gli spostamenti degli attori che ne evocano o meno la presenza con la sola imposizione delle mani richiamando a loro volta l’accensione o meno dei riflettori sul corpo oggetto del contendere.

Se la divisa di Polinice non lascia dubbi sul pensiero del regista nei suoi confronti, non altrettanto è possibile affermare in merito ad Antigone e Creonte. L’eroina rivoluzionaria (una straordinariamente misurata ed intensa Monica Piseddu) disposta a morire pur di onorare la morte del fratello traditore, tradendo ella stessa la legge democraticamente scritta, è sul palco un’elegante principessa di metà Novecento con blouse pastello accompagnata a pantaloni a campana e tacchi alti. Nessuna sofferenza è percepibile dal suo abbigliamento curato ed impeccabile, e l’altrettanto impeccabile acconciatura non fa certo pensare allo sforzo e alla fatica fatti per seppellire un cadavere nella nuda terra. Una rivoluzionaria borghese che di fronte al tiranno difende la legge dell’amore familiare senza sporcarsi realmente le mani e senza nemmeno avvicinarsi al fantoccio di Polinice. Una donna che, in questo adattamento, pur restando convinta dei propri sentimenti e del proprio operato, non si lascia mai davvero vincere dalle emozioni, mantenendo una sobrietà e una compostezza che certo non fanno pensare ad una pasionaria.

Se nella tradizionale interpretazione hegeliana funge da contraltare, in questa nuova messa in scena Antigone trova preferibilmente un comprimario in Creonte (un emozionale Oscar De Summa), il tiranno che nella sua divisa da partigiano con la stella rossa sul petto nasconde, anche se non troppo bene, l’inquietudine del potere. Una zoppicante sicumera oscillante tra senso dello stato e intima inclinazione personale lo conduce a pagare un prezzo molto alto, forse troppo anche per un tiranno. Non bastano le raccomandazioni di Corifeo, né le schiette battute della guardia della città né la compassionevole sincerità del figlio Emone né la profezia dell’indovino Tiresia a farlo desistere dal suo intento giustizialista a favore della difesa del bene pubblico. Se la solitudine dopo il suicidio del figlio è conditio sine qua non per governare, Creonte non è meno vittima di Antigone perché dopo aver riconfermato il valore della legge scritta deve ritrovare con quale linguaggio riformulare le leggi della propria coscienza. Un linguaggio che può plasmarsi a partire da primitivi suoni gutturali costituenti il nucleo originario di quella lingua finora non abbastanza evoluta da impedire la tragedia.

Legiferare può garantire il funzionamento della democrazia nell’agorà pubblica ma resta uno spazio privato, intimo in cui questo non basta. L’essere deinòs, “miracolo che fa paura”, richiede di rispondere ad una costituzione morale scolpita così profondamente che non è solo modello esemplare per la comunità ma fonte di pericolo. L’inflessibilità dei due “antagonisti” è tale da avvicinarli rendendoli comprimari, complici, facce della stessa medaglia. Se per Creonte, l’uomo di Stato, non è sufficiente l’affetto del figlio Emone (un efficace Francesco Rotelli), non sorprende allora che nemmeno Ismene (un’intensa Monica Demuru) riesca a convincere la sorella Antigone, incapace di rinunciare al proprio essere deinòs. Una natura questa che nemmeno l’indovino Tiresia riesce a travalicare nell’interpretazione di una straordinaria Demuru completamente ricoperta da un bianco velo che lascia spazio solo ad un occhio, inabile alla vista ma capace di introspezione divinatoria.

In quell’agorà dove gli affetti familiari più profondi non possono vincere, ancor meno può la comunità di cittadini che prende vita attraverso le parole del Corifeo, ridotto ad un umile ed anziano servo, quasi rassegnato (interpretato da un incisivo Marcello Sambati), e della guardia tebana (nei suoi panni lo stesso Rotelli) che in uno schietto e marcatamente dissonante dialetto romanesco esprime la nostra genuinità, di noi anti-deinòs che troviamo in lui l’unico complice sulla scena.

Nell’adattamento di Massimiliano Civica, di cui abbiamo apprezzato la sobria liricità e l’essenziale scenografia, grazie anche all’accorta scelta degli abiti, idealizzati e realizzati per l’occasione dalle Manifatture Digitali Cinema Prato, si smorza significativamente l’aura romantica della protagonista. Antigone non è un Prometeo, eroe indefesso consapevole della propria inevitabile sconfitta. Come suggerito dallo stesso Civica nel preciso libretto di sala, la “principessa” Antigone diventa paladina di un’aristocrazia che non vuole arrendersi alla democrazia tirannica di Creonte, fatta di leggi scritte lontane da una moralità tradizionale alla quale è difficile rinunciare. Grazie alla inflessibilità dei due coprotagonisti si realizza così la vera catarsi del teatro classico, capace non tanto di esasperare le emozioni umane quanto di esaltare quella capacità di mediazione e di ascolto che è alla base di una dialettica veramente democratica dove l’essere deinòs è ostacolo alla convivenza civile. Neanche i miracoli, quando fanno paura, sono cosa buona e giusta.

Info:

ANTIGONE di Sofocle
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Oscar De Summa, Monica Demuru, Monica Piseddu, Francesco Rotelli, Marcello Sambati
costumi di Daniela Salernitano
luci di Gianni Staropoli
fantoccio realizzato da Paola Tintinelli
traduzione e adattamento di Massimiliano Civica
assistente alla regia Elena Rosa
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Armunia residenze artistiche e Manifatture Digitali Cinema Prato – Fondazione Sistema Toscana
foto Duccio Burberi
PRIMA ASSOLUTA
Teatro Fabbricone, Prato
30 novembre 2019

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