Al Quaranthana di San Miniato (PI) la compagnia I Sacchi di Sabbia conclude la stagione con uno spettacolo fantasmagorico e surreale, un’apparente stralunata rilettura di ANDROMACA di Euripide che invece si rivela una preziosa chiave interpretativa di un fenomeno complesso e molteplice quale la tragedia greca ancora si configura.
ANDROMACA: la via del comico alla tragicità

In un indimenticabile romanzo di David Lodge uno dei protagonisti, il giovane Perce, dichiara che sta scrivendo una tesi sui rapporti tra Shakespeare e Joyce. Benissimo, commenta il suo interlocutore, certo che è facile trovare influenze shakespeariane in Joyce. No, ribatte il giovane studioso, io indago invece le pre- influenze joyciane in Shakespeare: ci sono, assolutamente. Il dialogo surreale e serissimo ritorna in mente assistendo allo spettacolo de I Sacchi di Sabbia che, in chiusura di stagione, mettono in scena al Teatro Quaranthana di San Miniato l’ANDROMACA di Euripide. La maniera della compagnia di affrontare la tragedia classica ormai è celebre, e lo dimostrano i vari premi ottenuti fra cui il celeberrimo Ubu. E certo nello spettacolo di cui stiamo parlando le modalità consuete ci sono tutte: un piccolo gruppo di attori, solo quattro, ricopre tutti i ruoli, spesso trascurando qualsiasi problematica di genere secondo le regole classiche in cui tutti i ruoli sono rappresentati da uomini (per cui l’Andromaca di Gabriele Carli può avere la barba e Menelao, interpretato da Giovanni Guerrieri, regala anche la vocina del piccolo Molosso, rappresentato da un pupazzo di stoffa e lana). Nessuna scenografia, pochissimi oggetti in scena, un mosaico di dialetti, una decisa virata verso il registro della comicità. Potremmo sostenere che si tratta di un modo come un altro di rappresentare il classico, alleggerendolo per renderlo fruibile, una semplice astuzia perché il pubblico lo segua, passi a nuoto agevole dall’una all’altra delle isole comiche e sopporti la seccatura di un testo farraginoso e lontano dalla nostra sensibilità. E certamente la verve comica degli interpreti è indiscutibile e le risate punteggiano la performance. Ma c’è ben altro e la tragedia verdeggia in questa remise en scéne molto più profondamente che in allestimenti più filologici e paludati.
ANDROMACA e la rete euripidea
ANDROMACA fa parte delle tragedie di Euripide legate al destino delle donne di Troia: tragedia del day after, di cosa rimane dopo la catastrofe. Difficilmente databile, forse, come le stesse Troiane, fu ispirata dal terribile episodio dell’ecatombe di Melo, che spinse Euripide a riflettere su cosa accade ai vinti, e come l’atrocità va nel profondo, non concludendosi soltanto in un campo grigio di ceneri ma stingendo sulla quotidianità dei sopravvissuti – le donne, soprattutto. In colloquio con un coro ristretto a una sola coreuta, cinica e disincantata testimone di un destino disastroso (Giulia Gallo), Andromaca, aggrappata con la mano a una statuetta della Vergine Maria (nel testo euripideo la protagonista non esce dal recinto sacro alla dea Teti), pronuncia un lungo monologo in cui enumera la sue disgrazie: la morte di Ettore, l’assassinio efferato del figlio Astianatte lanciato giù dalle mura di Ilio, il destino che l’ha resa schiava di Neottolemo, poi amante di lui (“prima a pulire il pavimento con lo spazzolone, poi una breve doccia e nel letto dell’eroe a sganassoni“), la gelosia della moglie legittima, Ermione, disperatamente sterile mentre Andromaca ha avuto da Neottolemo un bimbo, Molosso (nel mito tre, ma qui Euripide ne nomina uno solo), e il pericolo, ora che l’eroe è andato a consultare l’oracolo di Delfi, che Menelao, padre di Ermione, risolva il problema assassinando lei e il bambino. Il monologo viene recitato velocissimamente, con un ritmo esagerato, sottolineando la monotonia di questo lamento reiterato – gag comica? Certo, ma nel prologo della tragedia Euripide affida a Andromaca un monologo, un dialogo con la serva e un lamento vero e proprio, e la sensazione di ripetizione, di elegia insistita, avrà certo pervaso anche il dramma, come avviene qui: ovviamente la scelta del dialetto e di una lingua carnosamente popolare insiste su una fruizione comica, ma molti studi hanno fatto notare che anche in tragedia greca ogni personaggio aveva il suo registro linguistico, e forse parole terribili in un lessico quotidiano articolano il paradosso della sofferenza che si insinua nella quotidianità meglio di quanto faccia un registro alto: la scorsa settimana ero a scegliere un film su Netflix e oggi sono col mitra in mano, ha dichiarato un cittadino ucraino intervistato all’inizio del conflitto, con un alone tragico certo superiore a qualsiasi canto elegiaco potessimo concepire.

ANDROMACA e la fedeltà della reinterpretazione
E la tragedia continua ad essere presente nella sua completezza e a far capolino integra e intensa dalla traduzione così quotidiana, dalle scelte sceniche così ridotte all’osso. Ermione entra in scena col diadema luminoso, proprio come avviene in Euripide, in cui l’arrivo della giovane in abiti lussuosi riecheggia l’entrata di Elena, sua madre, perfettamente abbigliata fra le troiane miserevoli dopo la notte terribile della caduta della città nella tragedia omonima. L’agone fra lei e Andromaca è tutto euripideo, fino alle argomentazioni di Andromaca che esorta Ermione a non superare la madre in filandria, ovvero disinvoltura sessuale, e a smetterla di opporsi al marito: lei non lo faceva, giungeva al punto di allattare i figli bastardi di Ettore per conservarne l’amore. Altri scontri si susseguono: Menelao minaccia Andromaca, forzandola ad abbandonare il recinto sacro perché ha catturato Molosso e promette di ucciderlo se la madre non uscirà dal tempio. Andromaca cede, esce, e Menelao dichiara che eliminerà sia lei che il figlioletto, capovolgendo la sua statura di grande eroe epico in una figura di anti eroe vile e infido. Peleo, anziano ma con l’energia di un giovane, difende Andromaca contro Menelao e riesce a proteggerla: con un colpo di scena Ermione, angosciata dalla possibile reazione di Neottolemo alle sue trame contro Andromaca, fugge con Oreste, suo antico fidanzato. E infine, in un dramma irregolare, dove è difficile trovare un vero protagonista, un dramma del cambiamento immediato, della metabolè, la tragedia tradizionalmente intesa arriva: l’angelos, il messaggero (ancora uno stupendo Giovanni Guerrieri), racconta la morte tragica di Neottolemo ucciso a Delfi. La desacralizza, porgendola al pubblico con le modalità con cui un commentatore sportivo potrebbe raccontare una partita di campionato, la rende stralunata, una citazione aperta, un pezzo di bravura incisivo e indimenticabile.
ANDROMACA e le domande infinite
Molte domande: una de/sacralizzazione della tragedia? Ma siamo sicuri di sapere che cos’era la tragedia? Cosa aveva inteso Euripide nel mettere in scena un testo così atipico, fatto di momenti, di personaggi uniti in diadi polemiche, diversi da loro stessi in altre tradizioni (epica, lirica) e diversi in momenti diversi del dramma? Quanto elevata e quanto sapida era la sua lingua, quanto precise le sue intenzioni etiche (sulle donne, sui vinti, sui diversi) e politiche? Poiché non è dato di saperlo, la maniera de I Sacchi di Sabbia rimane evocativa, rispettosa ed efficace. Un modo di inserire con forza il cuneo della tragedia classica nei giorni d’oggi, abbattendo le barriere e distruggendo le lontananze: vicina e misteriosa, ci obbliga a farci domande, come avviene solo per ciò da cui siamo davvero interessati e che non giudichiamo una volta per tutte, senza ripensarci più. Una maniera performativa riesce a dare suggerimenti interpretativi: uno splendido risultato.
Visto il 14 Aprile al Teatro Quaranthana (San Miniato)
ANDROMACA
da Euripide
di Massimiliano Civica e I Sacchi di Sabbia
con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Iliano