Una storia come tante e comunque unica e irrepetibile – emblematica della fatica di vivere di persone, nate in una terra povera anche se fiera per una tradizione impersonata da storici eroi come Scanderberg, che hanno cercato di costruirsi una vita più dignitosa in una sorta di Terra Promessa voluta con ostinata disperazione – raccontata il 21 giugno 2016 al Teatro Menotti di Milano nell’ambito della Rassegna “INNESTI. Mutazioni del paesaggio umano transculturale”.
La Rassegna – nata nell’ambito del Progetto MigrArti (voluto da Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo) con lo scopo di analizzare e riflettere sulla situazione socio-culturale in cui vivono gli immigrati di prima e seconda generazione nella società italiana – prevede sei spettacoli teatrali con protagonisti giovani autori e artisti (nati o provenienti da Albania, Russia, Pakistan, Afghanistan, Iran, Romania, Brasile e altri Paesi) che hanno collaborato con artisti italiani per produrre novità generate dall’incontro di diverse culture.
È necessario sottolineare come negli ultimi trent’anni le vie di convivenza abbiano seguito tre linee diverse: assimilazione come adeguamento totale dello straniero a regole e modi di vita della società che lo ha accolto, integrazione come partecipazione attiva dei nuovi membri alla vita sociale rispettando le regole prefissate di chi accoglie e inserimento, concetto più recente rispetto ai precedenti, finalizzato a migliorare l’accoglienza verso lo straniero garantendogli di conservare i particolarismi di origine allo scopo di rendere la società multietnica e multiculturale senza che le diversità siano considerate con astio e preconcetti, ma anzi occasioni di reciproco arricchimento.
La seconda generazione (G2) di immigrati (e sovente anche la prima) è spesso incerta rispetto al Paese di appartenenza – vanno ricordati al riguardo gli splendidi versi della poesia In memoria che Giuseppe Ungaretti scrive nel 1916 in ricordo dell’amico arabo Moammed Sceab morto suicida nel 1913 perché sradicato dalla sua cultura proprio come il poeta che tuttavia è sostenuto e consolato dalla poesia – pur essendo accomunata dalla lingua italiana.
Esiste, perciò, un filone che va dalla poesia alla prosa, al teatro, al cinema e alla musica capaci di raccontare il dramma della migrazione con tutte le problematiche relative, creando così intrecci/innesti che non sono sommatorie, ma danno luogo a una cultura nuova.
Una teoria costruttiva che, affinché non rimanga solo una quantità di belle parole, va letta e vissuta con l’intelligenza e il rispetto del sapere scegliere così come andando in un Paese straniero anche solo per una vacanza si sposa qualche abitudine che risulta gradita o come è successo anche nella nostra migrazione interna da Sud a Nord.
Emblematica dunque la difficile esperienza d’integrazione – fatta di sacrifici, pericoli, sforzi, umiliazioni – vissuta, scritta e raccontata con notevole pathos e con la potenza sinestetica della sola parola (propria e del padre) attraverso un misto di italiano, albanese e veneto da Aleksandros Memetaj, nato il 19 giugno 1991 a Valona ( Albania) e sbarcato in Italia con la famiglia a soli 6 mesi e dopo varie peregrinazioni stabilitosi a Fiesso d’Artico, paesino veneto dove si è formato conservando la propria lingua come strumento per difendersi dalle angherie dei compagni più bulli e prepotenti. Liceo Classico e studi filosofici sono alla base del suo percorso culturale finché si volge al teatro in modo serio e impegnato e ora mette in gioco se stesso raccontandosi: il reiterare dolori e umiliazioni dell’infanzia (che non toccano solo chi è straniero e per tale ragione discriminato) ha anche una funzione catartica e liberatoria.
Una pièce dal forte realismo in virtù della regia di Giampiero Rappa, conosciuto alla scuola di recitazione “Fondamenta” di Roma, che prevede per Aleksandros sul palco una posizione non confortevole così come è stata la sua vita.