Lo spettacolo Afghanistan Enduring freedom, già vincitore del Premio Associazione Nazionale Critici Teatrali 2018, è attualmente candidato per due Premi UBU: come “Spettacolo dell'anno” e “Migliore nuovo testo straniero o scrittura drammaturgica”. In cartellone fino al 16 dicembre al Teatro delle Passioni di Modena. Noi occidentali siamo stanchi di sentir sempre parlare di guerra, povertà e abbandono, allora, anche e, soprattutto, per questo il Trycicle Theatre di Londra ha commissionato questo affresco teatrale corale a dieci drammaturghi, perché era necessario. Ogni affresco è un'epoca, ogni sguardo lo sguardo della storia e della politica da un lato, della lucida umanità dall'altro.
La prima parte, Afghanistan Il grande gioco, è stato proposto dal Teatro dell'Elfo nella scorsa stagione teatrale e da noi recensito e in quel caso i cinque quadri riguardavano il periodo dal 1842 al 1996. Questa stagione invece, prevede i cinque quadri più recenti di Afghanistan Enduring freedom, siamo quindi nella contemporaneità a noi più vicina: ricoprono il periodo che va dal 1996, anno in cui i talebani prendono il potere, al 2001. I due spettacoli possono essere rappresentati autonomamente oppure proposti come unica maratona teatrale.
“E non dite che tutte queste cose le ha volute Dio” – dice la giovane cooperante che apre il primo quadro, dichiarando apertamente di aver rinunciato alla sua religione – “Dio vuole un po' troppe cose in questo paese”. E nel paese dove tutti vogliono troppe cose, abbiamo la visione dei soldati americani autenticamente convinti di essere reali portatori di pace e democrazia, ma vediamo anche attraverso lo sguardo che mi ricorda quello della ragazza afgana di Steve McCurry, che può sembrare assente, ma che in verità è troppo lucido per la sua età, tutto è racchiuso in quegli occhi. Perché sta accadendo tutto questo? Enduring freedom prova a spiegarcelo e lo fa in maniera lineare e obiettiva, passando dai giochi di potere internazionali alla guerra civile interna al paese.
Ognuno dei cinque quadri di Enduring freedom è aperto da filmati di repertorio, che con la loro forza ci ancorano subito alla realtà: non è uno spettacolo teatrale su una storia romanzata, le torri gemelle in fiamme viste da tutte le angolazioni ce le ricordiamo bene, come le case distrutte, la gente mutilata, la rivediamo davvero, nella nostra memoria prima ancora che nelle immagini che vedevamo al telegiornale, così come ricordiamo le donne celate dai loro burqa che chiedono l'elemosina in mezzo alla sporcizia. È tutto vero, quella non è finzione, l'attentato suicida è accaduto davvero, proprio quell'attentato, quello che ha ucciso l'ultima forza riformatrice che dall'interno lottava contro i talebani. Tutto reale, la vita vera accaduta, che rivediamo tramite la vita vera inscenata che è il teatro. Il teatro, qui, è l'Afghanistan.
Nel primo quadro, Il leone di Kabul, di Colin Teevan, siamo nel 1998 e i talebani hanno scelto lo zoo di Kabul per un incontro con Rabia, la direttrice operativa di una agenzia dell'ONU. Rabia è alla ricerca di informazioni su due suoi collaboratori scomparsi; nel trattamento irrispettoso e sessista che la donna riceve dal mullah talebano Khan, vi è anche la triste conferma di due visioni inconciliabili, non solo nelle contraddizioni interne all'ONU stesso, ma la totale impossibilità di dialogare tra mondi dai valori agli antipodi, sharia e giustizia occidentale non possono trovare dialogo. Il secondo quadro, Miele, ha al centro la figura del comandante Massud, che aveva preso distanza dal governo talebano e per questo fu ucciso da un attentato il 9 settembre 2001. La sua morte, oscurata dall'attacco alle torri gemelle, viene adesso rimessa in luce dal pezzo di Ben Ockrent. “Non basta parlare di miele, bisogna che la bocca sappia di miele” , dice un proverbio afgano. E poi ci troviamo Dalla parte degli angeli, scritto da Richard Bean, un pugno nello stomaco, un quadro che pone l'evidenza sulla diversa concezione di intendere gli aiuti umanitari, le modalità, talvolta ciniche e superficiali, con le quali le associazioni non governative si relazionano coi le popolazioni per i quali operano. Siamo poi nella Volta stellata, di Simon Stephens, dove si passa da un bunker sotterraneo a un villaggio che deve essere messo in sicurezza e, infine, a Manchester, a casa di uno dei soldati protagonisti, che continua la sua guerra nella lotta interiore con la fatica nel rapportarsi con la famiglia, che non accetta il suo aver abbracciato la causa di un lavoro contraddittorio che lo porta lontano e che lo distrugge di dubbi morali. L'ultimo quadro, Come se quel freddo, di Naomi Wallace, che non sono è drammaturga, ma anche poetessa, è il quadro più aulico e struggente tra i cinque. È la storia di tre vite rubate che si incontrano per l'ultima volta, in una dimensione altra che somiglia al sogno, dove forse tutto può accadere, dove speriamo che quelle possano essere state dette davvero, dove forse a un certo punto la sorella più piccola non sarà più intrappolata nel suo burqa, la grande imparerà l'inglese e a contare e il giovane soldato americano per un attimo non è sarà più intrappolato nei suoi scarponi
militari.
La scena è dinamica ed efficace nella sua essenzialità, viene trasformata con disinvoltura di quadro in quadro nel contesto necessario dagli attori, che muovono i tasselli delle scenografie, come piccole pedine di una scacchiera, dandoci giusto il tempo di elaborare il quadro appena visto. Ma il tempo non è sufficiente, le proiezioni video a cura di Francesco Frongia ci graffiano di nuovo gli occhi e veniamo subito immersi in una nuova tragedia.
I privilegiati attori possono pronunciare questi testi di fresca bellezza, di immensa qualità sia dal punto di vista del contenuto che da quello della forma, i dialoghi sono intensi, vibranti, dipingono personaggi di grande personalità e vincono la sfida: nonostante le tematiche non facili non appesantiscono, non risultano mai eccessivi.
Il taglio è cinico e ironico a tratti, struggente e poetico ad altri, ci lascia addosso la consapevolezza che la storia non insegna e che non vogliamo imparare niente, ci parla di noi con o senza il bisogno di tirare in ballo il volere di un dio che non per tutti esiste o che viene visto e chiamato in un altro modo, come se ci fosse bisogno di una giustificazione, come se avessimo bisogno di un Dio per punirci l'un l'altro.
Forse possiamo rispondere alla domanda iniziale, sì, c'è ancora molto da raccontare sull'Afghanistan, è più che mai necessario parlarne “per sapere, per capire, per poter leggere la disperazione e la speranza negli occhi di chi è partito dalla valle del Panjshir per sedersi al nostro fianco in metropolitana”, ci dicono i registi. Ed è il compito e la forza del teatro, sociale e politico per sua profonda natura e cultura, sperimentare il terreno meno frequentato, ma la domanda adesso è un'altra: quando dal great game passeremo al game over? Quando questa partita ingiusta e impietosa finirà e l'Afghanistan, il paese nel posto sbagliato, sarà finalmente lasciato in pace?
Info:
AFGHANISTAN: IL GRANDE GIOCO + ENDURING FREEDOM
Il grande gioco: di Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson
Enduring freedom: di Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace
traduzione Lucio De Capitani
regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani
assistente alla regia Giovanna Guida
scene e costumi Carlo Sala
assistente scene e costumi Roberta Monopoli
luci Nando Frigerio
suono Giuseppe Marzoli
video Francesco Frongia
con Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana
produzione Teatro dell'Elfo ed Emilia Romagna Teatro Fondazione
in collaborazione con Napoli Teatro Festival
con il sostegno di Fondazione Cariplo
Premio Associazione Nazionale Critici Teatrali 2018
Afghanistan Enduring Freedom è candidato ai Premi UBU come "Spettacolo dell'anno" e "Migliore nuovo testo straniero o scrittura drammaturgica"