Più che uno spettacolo sulla morte, come il titolo potrebbe lasciar presagire, uno spettacolo sulla vita, su ciò che della vita è espressione più emblematica e significativa, l'amore materno. ACCABADORA ha debuttato al Teatro India giovedì primo marzo e sarà in replica fino al 4, nella rappresentazione di una grandiosa Monica Piseddu.
La drammaturgia di Carlotta Corradi trasforma il romanzo di Michela Murgia in un intenso monologo affidato al personaggio di Maria, figlia adottiva di s'accabadora. Per voce della ragazza, appena tornata da Torino in Sardegna ad assistere la Tzia in fin di vita, la vicenda si ricostruisce man mano. Il suo parlare all'anziana donna è parlare a se stessa, per mettere assieme, attraverso il filo dei ricordi che riemergono vividi e tormentosi, i vari tasselli di una storia che trova definizione e senso nel susseguirsi delle parole.
Ultima di quattro sorelle, considerata di troppo dalla madre naturale, Maria viene scelta bambina da Bonaria Urrai, sarta di Soreni, come propria figlia e da questa cresciuta con quell'affetto e quella dedizione mancanti nella prima parte della sua vita. Il rapporto tra le due è fatto di tenerezza e buoni insegnamenti, nell'atmosfera di una tipica casa sarda, che profuma di biscotti alle mandorle e fichi al forno. L'idillio termina quando Maria scopre che, oltre che sarta, Bonaria è accabadora appunto, donna chiamata ad aiutare a morire le persone in fin di vita. Per la ragazza, per la quale ci sono semplicemente «cose che si fanno e cose che non si fanno», la reale identità della Tzia è inaccettabile e l'unica soluzione per liberarsi di quella scoperta è andar via dalla Sardegna.
La scena è quasi del tutto disadorna, solo una sedia e una panca gli arredi presenti. Quello che più colpisce è il pannello retrostante, un muro scuro, ruvido e increspato che si fa nel corso della rappresentazione immagine del divenire mentale di Maria. Nella sua pesantezza ed iniziale impenetrabilità si apre ad un certo punto un varco, passaggio che è in realtà una ferita e, in quanto tale dolorosa, ma che permette il cambio d'abito e il conseguente ritorno a quelle atmosfere e tradizioni della Sardegna abbandonata che rendono possibile il compiersi della memoria e del perdono.
Giunta da Torino in jeans e scarponcini, Maria ha raccolto tutte le sue cose in uno zaino, mentre il suo caldo cappotto a quadri ricorda quelle strade torinesi che sono il primo elemento raccontato alla Tzia. Strade fatte prima delle case, come se si potessero fare i ritagli prima dei vestiti, un'assurdità, nulla a che vedere con le strade tortuose della Sardegna, costruite dopo le case e quindi storte, serpeggianti. L'idea di topografia corretta nella testa della ragazza è sempre rimasta quella di Soreni, il paese abbandonato dieci anni prima.
Tolto il cappotto a quadri, le parole prendono il via veloci, sempre più dense, mentre Maria si toglie il resto dei vestiti, quasi ad eliminare una debole corazza che impedisce l'autenticità nel dialogo con Bonaria. Nuda nel buio della notte, indossa una leggera camicia da notte, mentre i latrati del suo inconscio si uniscono ai gemiti di dolore della madre.
Quando sembra giunto al compiersi di una parabola, lo spettacolo si avvia alla sua parte speculare e concludente. Inizia la vestizione. Maria indossa gli abiti che era solita portare Bonaria: una lunga gonna a pieghe, una camicia ed un corpetto. Tutto nero. Liberatasi dal fardello dei ricordi irrisolti e del senso di colpa, la donna può finalmente intraprendere il suo percorso di comprensione e crescita, percorso che prevede accettazione della propria storia ed immedesimazione nella figura della madre adottiva. Uno spettacolo che è soprattutto una storia di formazione, dunque.
Monica Piseddu impersona senza mai lasciare il ruolo di Maria, tutti i personaggi della storia. Alterna all'italiano il sardo quando dà voce alla madre naturale e a Bonaria, un sardo che assume differente consistenza ed asprezza nel modo di esprimersi delle due donne. La sua interpretazione è potente, ma allo stesso tempo delicata, emozionante e commovente, senza mancare qua e là di quella leggerezza ed ironia che donano allo spettacolo un candore speciale.
La regia di Veronica Cruciani, pur dando risalto a due tematiche socio-politiche importanti, quali sono quelle della maternità di fatto e dell'eutanasia, sottolinea l'aspetto emozionale e privato di una storia che, si è detto, è in primo luogo e soprattutto una storia di crescita, ma che è anche una storia di genere, nella quale l'essere donna delle due protagoniste aggiunge una serie di valenze che arricchiscono di significati il tutto.
Il finale chiude circolarmente racconto e simbologia. Perdonata l'anziana morente madre e compreso il senso della sua attività di accabadora, Maria accetta di aiutarla a morire. Indossato infine il suo nero fazzoletto in testa, diviene Bonaria lei stessa che, ringraziandola per quel gesto di grazia, da ultimo le racconta del momento in cui per la prima volta l'ha vista ed ha deciso che il tempo della sua sterilità era finito.
Info:
ACCABADORA
dal romanzo di Michela Murgia edito da Giulio Einaudi Editore
drammaturgia Carlotta Corradi
regia Veronica Cruciani
con Monica Piseddu