Non si racconta facilmente DOPO, installazione abitata di Gabriella Salvaterra, artista poliedrica, collaboratrice dal 1999 del Teatro de los Sentidos e del regista e antropologo colombiano Enrique Vargas; raffinata evocatrice di luoghi dell’anima l’autrice conduce lo spettatore dentro un’esperienza immersiva e sensoriale, rendendolo, nello stesso tempo osservatore e protagonista. La performance, in scena al Funaro dal 24 al 27 settembre, ci porta nella poetica della frattura e della riparazione e intreccia, con toccante delicatezza, il desiderio di conservazione del ricordo e il bisogno di emanciparsi dal vincolo emotivo del passato. “Dopo”, che ha iniziato a prendere forma nel 2015, è diventato il punto di partenza di una trilogia sui temi della rottura e della riparazione. Scrive Gabriella Salvaterra: “Come per moltissime persone, qualcosa negli ultimi mesi si è rotto dentro di me. Gli eventi mi hanno colpita in maniera profonda e personale e hanno segnato indelebilmente la mia famiglia. E sono dovuta tornare al punto di partenza, ho dovuto e voluto guardare con occhi nuovi la rottura, quelle interruzioni che ci costituiscono come individui e come società. Ho sentito che questo nuovo sguardo era più forte, più centrato, addirittura forse più sereno. Sembra che quando si rompono le certezze, emergono silenzi che vale la pena ascoltare e attraversare, verso quello che potrà accadere…dopo“”
Il pubblico, diviso in turni di soli tre spettatori alla volta, è invitato a compiere un percorso onirico. Tre attrici, Gabriella Salvaterra, Loredana D’Agruma, Elena Ferretti lo accolgono e lo guidano attraverso corridoi stretti e affollati di cose, disposte in meticoloso ordine, una accanto all’altra, catalogate per grandezza e genere: vecchie valigie, piccoli oggetti da collezione, carte da gioco, oggettini in ceramica, reperti usurati di un tempo passato, ci immergono con crescente nostalgia in un viaggio a ritroso. Il secolo dei nostri anziani, fragili, esposti al vento degli avvenimenti che di recente hanno ricordato a tutti noi l’evanescenza della vita. La testimonianza del loro passaggio trascolora sui bordi sciupati di cose usate. Frammenti di memorie occhieggiano dal retro di cocci da lavare e dalle ante degli armadi a specchio in cui riflettiamo la nostra immagine.
“Tutti siamo fatti di pezzi” ci dice la Salvaterra, invitandoci ad un tavolo di piatti rotti, delle cui crepe è possibile seguire col dito il percorso, riavvolgendo itinerari di vita interrotti. Forse non tutto si può riparare, non sempre, non sempre nello stesso tempo. A volte occorre accettare l’ineluttabilità della frattura e attraversarla per capire come farla germogliare.
E’ questo che ogni spettatore è chiamato a fare, immergendosi passo dopo passo nei meandri di un ricordo che magicamente si salda nella sua dimensione individuale e collettiva. Ci accompagna il rumore crescente dell’acqua. Inizialmente gocce, come infiltrazioni dal soffitto, che intessono una partitura musicale ancestrale, quasi tribale, risuonando in bricchi, secchi, vecchie toilettes di latta smaltata; poi a scroscio violento, come un uragano che si abbatte sull’intimità sfatta di una camera disfatta, impolverata di cipria e sensualità sfibrata, come la routine di una vita ingiallita dal tempo; infine l’acqua si placa nel riflesso luminoso di cassetti ricolmi, in cui galleggiano foto d’epoca, listate di bianco: istantanee di un presente perduto nelle quali, per un’inspiegabile suggestione, ognuno di noi intravede le proprie foto di famiglia. La cigolante carrucola di Montale riporta in superficie volti di giovani sposi, bambini vestiti da prima Comunione, gruppi di amici e romantici profili solitari; intanto, dalle pareti tappezzate di libri, ci osserva, ormai compiuta, la storia del Novecento, con le sue speranze, con le le sue utopie perdute, greve di memorie di amore e guerra di cui non riusciamo a scrollarci il fardello. L’acqua cede il passo a giochi di ombre, proiettati da fiabeschi carillon su tessuti bianchi e ricamati, come le tovaglie odorose del corredo della nonna. E di nuovo gli oggetti ci parlano, come appena usciti dalla scatola dei ricordi in soffitta e con essi rimpianti, sradicamento e appartenenza. Lo spettatore è invitato a lasciare lui stesso traccia scritta, dialogare con i fantasmi evocati dal questo viaggio fino a giungere ad un’ultima sala, aperta sulla strada e sulla realtà presente, dove i piatti infranti dell’inizio hanno trovato composizione, senza negare la frattura avvenuta. Come i vasi giapponesi del Kintsugi, intarsiati d’oro a riempire le crepe, i piatti in scena hanno trovato in una manciata di terra fertile il loro collante, da cui spuntano verdi germogli, nuovi, freschi, leggeri di passato ma radicati in esso e nella riconciliazione con i suoi traumi e le sue cesure.
Si esce in silenzio, sospesi come al risveglio da un sogno rivelatore: le attrici, guide silenziose e intense, ci hanno suggerito, attraverso la sollecitazione di tutta la nostra percezione sensoriale, tipica della ricerca della SST Sense Specific Theatre e della Scuola dei Sensi, sede italiana, presso Il Funaro, del Teatro de lo sentidos di Vargas, l’invito ad una trasformazione profonda. Forse non tutte le nostre fratture possono comporsi. Ma nostra responsabilità è tentare di ricucirne il senso o, almeno abitare quelle crepe per coglierne le intuizioni creative, per poter sporgersi ed intuire, ripensare il Dopo.
INFO
DOPO
installazione sensoriale abitata
di Gabriella Salvaterra / SST Sense Specific Theatre
con Gabriella Salvaterra Loredana D’Agruma Elena Ferretti
paesaggio olfattivo Giovanna Pezzullo
paesaggio sonoro Pancho Garcia, Stephane Laidet
direzione tecnica Davide Sorlini
organizzazione Claudio Ponzana
produzione Gabriella Salvaterra SST Sense Specific Theatre in collaborazione con il Funaro
Centro culturale Il Funaro, Pistoia
domenica 27 settembre 2020