VANIA@Inventaria: il ritmo di un respiro

Il Teatro dell'Orologio di Roma ospita fino al 22 maggio la sesta edizione del festival INVENTARIA, festival del Teatro Off ideato dalla compagnia DoveComeQuando che, nelle tre sezioni di concorso (Spettacoli, Monologhi e Performance e Corti teatrali) punta a promuovere il teatro indipendente, dando l'occasione di esprimersi ad artisti, più o meno emergenti, provenienti da tutta Italia.

Nell'ambito del festival è andato in scena ieri sera, per la sezione Spettacoli, VANIA, drammaturgia collettiva della compagnia milanese Òyes per la regia di Stefano Cordella.

Dello Zio VANJA di Cechov, al quale l'opera allude, permane l'atmosfera claustrofobica e il senso di irreparabilità del proprio destino che i personaggi subiscono, permangono in qualche modo le caratterizzazioni dei personaggi stessi (pur distinti dagli altri) e le dinamiche che li legano, ma da quel riferimento letterario importante lo spettacolo si discosta, volutamente e dichiaratamente, proprio a partire dal nome che ad entrambi dà titolo. Il Vanja Cechoviano diviene un femminile italianizzato Vania, nome che per altro non appartiene ad alcuno dei personaggi in scena, forse proprio perché, in virtù di quel riferimento, Vanja lo sono un po' tutti i personaggi, schiacciati, doloranti, perduti, o forse perché, in questo caso, tutti sono Vania in una nuova accezione, con quel residuo di speranza che li contraddistingue, con quel sopravanzo di resilienza che li rende, più che deboli, teneramente umani.

Accanto alla disperazione c'è in VANIA l'anelito al rinnovamento, all'evasione e parallelamente, il bisogno affermato di un contatto tra i personaggi, che sia scambio d'amore, ma soprattutto dialogo, comunicazione, perché nella molteplicità dei punti di vista, nella condivisione, è più facile trovare una via d'uscita. Dopo ogni seppur minima conversazione che coinvolge i personaggi due a due, infatti, capita che l'uno dice all'altro: “Son contento che abbiamo parlato”. Forse proprio nell'incontro, nel dare possibilità di vita a parole che esulano dal proprio ruolo e che, in virtù di ciò, hanno il potere di coinvolgere l'altro, è la nota di speranza che, in ogni caso, si respira durante la messa in scena.

Una scenografia essenziale, ma completa, restituisce l'ambiente della casa nella quale la vicenda trova collocazione. Quattro sedie per i quattro personaggi, tutte bianche ma di tipo diverso, delle quali tre al centro del palco ed una in posizione defilata, ad accogliere di volta in volta colui che si allontana dalla scena. A far da perimetro sono i fili, anch'essi bianchi, delle lampade disposte attorno. Luci e musica sono gestiti alternativamente dai personaggi stessi ed il mixer nella parte anteriore sinistra del palco, con la sua compagine di bottoncini e leve, rimanda al letto sul quale giace il quinto personaggio attaccato ad un respiratore artificiale, personaggio non in scena, ma che regola e determina l'esistenza di tutti gli altri. Si tratta di Sergio, uomo di mezz'età in stato vegetativo, ma in condizione sempre stazionaria. La stabilità della sua condanna rende tale anche quella degli altri. Ivan (Fabio Zulli), il fratello che lo accudisce alacremente e che è convinto di poterlo stimolare facendogli rivivere istanti di esultanza della loro squadra, il Milan. Elena (Vanessa Korn), sua moglie, tanto glaciale quanto fragile, apparentemente la più distaccata da tutto e da tutti, in fondo solo la più corazzata. Sonia (Francesca Gemma), la figlia di Sergio, ormai non più bambina, ma che della bambina conserva l'ingenuità ed una certo ottimismo, forse non totalmente autentico, ma in qualche maniera contagioso proprio in virtù della sua giovinezza. Il Dottore (Umbero Terruso), infine, amico di tutti, che giunge quotidianamente a controllare la situazione del malato senza mai poter dire alcunché di nuovo.

Densa, ma fresca allo stesso tempo, l'interpretazione del quattro attori, capaci di rendere un certo dinamismo pur nella prigione scenica volutamente costruita. Coinvolgente e simpatico l'accento riferito ad un non ben precisato paesino della provincia milanese, soprattutto quello concitato di Ivan. Emozionanti, infine, i brevi pezzi di cantato di Francesca Gemma.

“Ci vuole indifferenza per sopravvivere”, dichiara il Dottore ad Ivan durante una conversazione nella quale racconta del suo lavoro, di quando sia duro il contatto con persone che lottano e sperano per la vita dei propri cari, ma è una dichiarazione che non convince, non convince lui in quel momento di commozione e non convince come chiave di lettura dello spettacolo, nel quale ad essere predominante è infine l'estremo bisogno di essere amato di ognuno. Più autentica e suggellante allora la richiesta che Ivan rivolge ad Elena quando, disarmato, abbandona per un attimo i panni dell'ubriaco ilare e buffone e le chiede: “Can you love me, please?”.

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