UROBORO @ Fringe Festival: ancestrale eredità  del sapere

Nella seconda settimana di spettacoli del Roma Fringe Festival, il Mattatoio La Pelanda ha ospitato: Uroboro di Simona Ceccobelli e Sebastian O' hea Suarez (Anomalia Teatro).
Uroboro è una festa e una policromia crescente di movimenti reiterati che rappresentano meglio di mille parole l'ancestrale rapporto protocollato tra maestro e allievo. L'eredità del sapere tramandata con fatica nella dimora d'oro del sapere dove regna sovrano e indisturbato il dio silenzio; e quando irrompe l'allievo plebeo con quel seguito di fracasso ingombrante e urgenza di vivere, tutto si mescola vorticosamente in una danza tribale che muove gli equilibri sedimentati nel sito.

La quiete plenaria è icona della saggezza e quindi della inutilità conclamata dell'urlo acuto: protesi sonora e vana del corpo volgare concepita e sviluppata per acchiappare tutto compreso quello che è lì davanti a noi lontano appena un palmo e mezzo soffio d'aria.
La stravagante pièce torinese si presenta alla platea col suono inconfondibile della campana tibetana: richiamo per antonomasia e insieme si spande sino a dentro le narici. L'odore di fragranze lontane rapiscono il pubblico prono alla suggestione e ne monopolizzano l'immaginazione veicolandolo in un viaggio senza tempo tutto ad est.

Lo squarcio di quella pace irreale è atteso perché inevitabile, ed è segnato dal brusio assordante di città. Quella grazia viene interrotta dai clacson e isterico vocio: somma d'affanni e ingordigie del presente caduco per natura. C'è pregnante Nichilismo nell'idea drammaturgica della pièce che parte dalle nette allusioni all'Oriente del mondo più saggio nelle sue note promesse filosofiche di sempre. Ma ci sembra di scorgere l'ombra di Friedrich Nietzsche anche in quella denunciata esigenza di rinunciare alle leggi e quindi, qui, alle regole imposte dal maestro.

C'è un’esigenza precipua di anarchia nel sentimento che spinge l'allievo a rifiutare la preziosa esperienza e la sua utilità. Non si deferisce. C'è disordine ma al contempo ambizione nella disubbidienza testarda del novizio. La testa è fatta per pensare ma anche per sbatterla forte contro i muri che ogni giorno la vita edifica con dedizione contro la nostra cocciuta istanza di libertà.

Il maestro sollecitato nel suo silenzioso tempio del sapere, vuole avvertire generosamente che l'esistenza umana è, nella metafora del caso, un sentiero fatto di pianure, salite e fossi, e vuole indicarne la posizione esatta di questi ultimi perché ci è passato prima e vuole evitare che qualche altro ci cada scioccamente. Inutilmente.

L'allievo è invitato a frequentare quel sentiero, il maestro non vuole vietare ma indicare solo quello migliore nel ginepraio che si presenta innanzi. L'allievo, infine, indossa l'abito dell'esperienza, si vedrà che ha lo stesso colore  di quello del maestro. L'abito vecchio e nuovo, alleggerisce l'esistenza, preserva la libertà e la specie, placa la corsa frenetica nello stivaggio ad opera degli uomini sino a ritrovare dolcemente quel silenzio primordiale dell'inizio e della nascita.

Lo spettacolo ha natali originali. Viene partorito dalle tante prove. I movimenti, al contrario, scrivono il copione. L'autore è il caso. Ogni giorno è una nuova meravigliosa pagina che s'aggiunge. Lui, Sebastian O' hea Suarez, è un mimo straordinario che parla senza parlare e altre gesticola solo con gli occhi o per mezzo di brevi suoni o parole sincopate ed esplose verso la platea partecipe col silenzio e col sorriso.
Ceccobelli per quanto minuta di corporatura, riesce ad affermare la sua forte presenza scenica. Anche lei si esprime con l'arte sottile del mimo: suoni e parole sono recapitati come inevitabili comandi imperativi. Palesi. Bella e aggraziata, calza a pennello il personaggio del maestro severo che l'immaginario collettivo affida di solito al canuto slavato dagli occhi a mandorla ed il corpo asciutto e piatto.

Una pièce che piace e riceve il meritato e sostenuto applauso del pubblico in sala. Si ride e si riflette. Ci si interroga e permane il dubbio quando nel buio della scena si presentano inquietanti due bestie dai contorni rarefatti: un coniglio e una rana dai movimenti flemmatici. Figure antropomorfe che come ci dice  Suarez nel nostro chiarificatore incontro a fine spettacolo, sono l'alter ego dei personaggi e quindi di ognuno di noi: la realtà e l'onirico, il vero e il desiderio. Dicotomia connaturata in ogni essere umano che si rispetti e agogni vita da fuori e da dentro, dunque dagli occhi sino alle viscere in questa meravigliosa giostra in movimento perpetuo che è la vita.

Info:
Uroboro
Anomalia Teatro
proveniente da
Torino
uno spettacolo di
Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF