In scena al Teatro Mercadante di Napoli in occasione della sedicesima edizione del Campania Teatro Festival per la regia di Antonio Latella, il Circus Don Chisciotte di Ruggero Cappuccio, coproduzione della Fondazione Campania dei Festival con il Teatro di Napoli-Teatro Nazionale
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Un viaggio nell’infinito mondo della Lingua: Circus Don Chisciotte

Dimenticate le gags comiche dei clowns, i contorsionismi dei ginnasti e le acrobazie aeree dei trapezisti: non sono questi i “numeri” che dà Don Chisciotte nello spettacolo firmato da Antonio Latella per la drammaturgia di Ruggero Cappuccio.
Dimenticate pure le classiche peripezie antieroiche descritte nel capolavoro di Cervantes, dove i miraggi suscitati dall’amore romantico per Dulcinea animano gesta disperate e fallimentari.
Le imprese compiute dal visionario cavaliere della Mancia e dal suo compagno d’avventure riguardano qui altre dinamiche, relazionali e soprattutto dialettiche: la coppia Michele Don Chisciotte e Sancho Salvo dell’opera al suo debutto festivaliero a tratti somiglia a un duo beckettiano e si destreggia in assalti alla parola e al senso più che a nemici fisici, reali o immaginari.
Circus Don Chisciotte: un ospizio della mente assediato da televisori in tilt

Michelangelo Dalisi e Marco Cacciola sono i due meravigliosi attori alle prese con questo viaggio nel Toboso trasformato in un ospizio della mente: la sinergia tra i due è magnetica, il loro talento puro. Nei gesti calibrati, da guitto o raffinato declamatore, nella loro garbata vocalità si ravvisa la capacità funambolica di abitare e poi sostare nel corto-circuito temporale in cui è calata la rappresentazione.
In due lunghi momenti d’intersezione lo spettacolo s’arresta, infatti, evolvendo in performance audiovisiva con le luci cangianti e stroboscopiche di Simone De Angelis, le musiche e il sound design di Franco Visioli e Dario Felli a bersagliare i sensi con boati perturbanti e distopici, da catastrofe imminente.
Lo spazio allestito da Giuseppe Stellato, visibile dall’alto dei palchi, accoglie in platea una serie di sedie e poltrone vintage disposte in file ordinate rivolte verso il palco, di diverse fogge e dimensioni, con annessi comodini e tavoli da appoggio sui quali svettano obsoleti televisori a tubo catodico. Su queste sedute verranno fatti accomodare uomini e donne più o meno anziani che espleteranno il loro ruolo di spettatori e comparse esemplari, un campione dell’umanità che siamo diventati: fruitori annoiati e stanchi di quello che le televisioni e in generale i mass media ci propinano ogni giorno.
Al binario morto di Circus Don Chisciotte dove i significati si moltiplicano

Sospeso a mezz’aria tra la platea e il ventre nudo del palco si staglia un teleindicatore a palette, di quelli presenti nelle stazioni ferroviarie, al quale viene affidata la funzione polisemica di segnalare, di volta in volta, lettere, sillabe e parole, nomi d’autori e titoli di libri contestuali, dal valore evocativo e simbolico.
Alcuni vocaboli proiettati subiranno una sorta di scomposizione morfologica che ne evidenzierà le potenzialità semantiche intrinseche, per es.: amore /more /ore /re.
La tradizionale identità romanzesca della coppia Don Chisciotte-Sancho Panza – un cavaliere d’animo nobile, idealista e sognatore, e un contadino incolto – viene superata nell’annullamento di qualsiasi subalternità (non ci sono un servo e un padrone). In alcuni passaggi e battute vengono poi delineati i tratti caratteriali di un Don-Chisciotte, cólto maieuta / un Sancho ignorante, apprendista lettore che, da un lato mostrano il rapporto d’interdipendenza tra differenti ruoli e status sociali, dall’altro restituiscono centralità al concetto di cura nei confronti dell’altro, necessaria per recuperare una qualità attentiva e relazionale nuova, forse salvifica.
Don Chisciotte dirà al suo doppio Sancho: tu mi eri predestinato dalla sorte.
Anestetico Circus Don Chisciotte: come addormentare gli astanti

Il circus del titolo potrebbe alludere al concetto di circolo vizioso, all’immagine proverbiale di un cane che si morde la coda senza soluzione di continuità, come di chi affronti un problema senza alcuna via d’uscita o una situazione nella quale, dopo aver superato un ostacolo, ci si trovi ad affrontarne subito un altro.
L’immobilismo esibito dai telespettatori, rimessi alla noia soporifera della mancanza di programmi e in alcuni casi còlti da veri colpi di sonno durante lo svolgimento della pièce (!), è un riflesso dell’incapacità collettiva di superare le impasse del nostro tempo, di un’epoca esposta al rischio di una grave involuzione antropologica, dell’analfabetismo funzionale e culturale generato dal falso progresso di matrice capitalista.
Il rupestre Sancho – vissuto sempre nella beata ingenuità di chi, non sapendo nominare le cose, non può svelarne e temerne la vera natura – verrà istigato alla lettura da Don Cervante, sebbene questi ammetta – afflitto e laconico – che saber es sufrir.
Sancho proviene dal tempo bucolico dei secoli d’oro, tempo d’amicizia e concordia / quando la terra regalava vita e gli amorosi concetti dell’anima si esprimevano attraverso gesti semplici, perché non ci si fidava della parola, che nasconde il vero pensiero. Sancho non vede lettere ma forme di montagne, parti di mulini e macine: una E diventa una pettinessa. Si fa beffe del suo interlocutore: tiene il certificato!
Don Chisciotte è considerato ancora una volta pazzo perché riesce a vedere cose che nessun altro vede. Lui al contrario dirà di Sancho che egli è salvo, come salvo è chi – inconsapevole di tutto – può seguitare a godersi la vita senza pensieri ed eroismi di sorta.
Guardare e non vedere; leggere e non capire. È forse questa la perdita di sensi e senso che il teatro può e deve sanare?
Alla ricerca del tempo (e del senso) perduto: Circus Don Chisciotte

In una scena successiva Chisciotte e Sancho, dimesso l’identico abito borghese che li connota come uguali, ci appaiono in un nuovo costume di scena firmato da Graziella Pepe, quantomai fantasioso e ridondante, che sembra il risultato di un’ibridazione tra un cavaliere medievale e un Ghostbuster americano. Come catapultati su un pianeta alieno, a mo’ di astronauti rabdomanti, si aggireranno quatti nello spazio del palco e della platea, ispezionando con lo spadino da condottiero il pavimento, con un piede in un ideale passato bucolico e l’altro in un futuro apocalittico.
La tensione emotiva di Don Chisciotte, come un eroico furore, sta tutta nella ricerca di un’elevazione morale ed intellettuale (Dulcinea è qui la Parola); nello spirito pedagogico che anima le sue interazioni con Sancho; nella sua coraggiosa, strenua resistenza e alternativa opposizione alle brutture della modernità, generate dalla paralisi psico-fisica di una mondovisione ipnotica.
Chi non ha paura di perdere la propria vita si afferma come padrone su colui che, invece, teme la morte e diventa servo del primo.
L’efebico, pasoliniano Don Chisciotte degli istrionici Dalisi-Cacciola incarna un orizzonte immaginativo e culturale diverso, oltre il piattume di qualsiasi monitor, televisivo e non: mondo polito-bancario e ipocrita, io ti sfido!
Con un sapiente gioco di parole tra spagnolo e napoletano, los enfermos (i malati, in lingua spagnola) diventano coloro che – appunto – sono costretti a restare fermi, proprio come gli spettatori fatti accomodare sulle sedie e le poltrone distribuite in platea, immersi nell’anestesia policroma e lobotomizzati dai fasci luminosi dei coni di luce e dei televisori accesi, dai quali esalerà – appestando l’aria – il fumo tossico di circuiti elettrici bruciati.
Il finale sulle note di Battiato di Circus Don Chisciotte: arrendersi è inevitabile

Nel finale saranno visibili come titoli di coda, nei caratteri luminosi che si succedono sul tabellone, i nomi di alcuni tra i più importanti filosofi e scrittori, di opere fondamentali attinti all’indice della letteratura occidentale.
Un monito intellettuale per “redimere” il pubblico, salutato come gigante?
Forse un invito alla lettura per contrastare il rincretinimento di massa, la stasi nella quale siamo impantanati come rifiuti umani nella discarica dell’intrattenimento perenne?
L’opera firmata da Cappuccio, filtrata dalla regia di Latella, straripa di segni: troppi.
Somiglia alla tela di un pittore indeciso, che abbia abusato di ogni colore e sfumatura possibile.
Il messaggio che i due talentuosi artisti hanno affidato allo spettacolo, fin troppo stratificato e complesso, è di difficile fruizione e interpretazione.
Errare – sentenzierà il nostro paladino della justicia – è parola che può significare due significati: andar di ventura e commettere degli sbagli.
Don Chisciotte, dal canto suo, verbalizza il suo dolore ogni volta che Sancho pronuncia male alcune frasi, facendo cadere l’accento sulle sillabe sbagliate: príncipi invece di princípi, lèggi al posto di léggi.
Bisognerebbe davvero saper decifrare gli arcani della Lingua, domare la Parola, incarnare giusti significanti per trasmettere degni significati. Invece: sul ponte sventola bandiera bianca.
Visto al Teatro Mercadante, Campania Teatro Festival il 14 giugno 2023
DI RUGGERO CAPPUCCIO
REGIA ANTONIO LATELLA
CON MARCO CACCIOLA E MICHELANGELO DALISI
SCENE GIUSEPPE STELLATO
COSTUMI GRAZIELLA PEPE
MUSICHE FRANCO VISIOLI
SOUND DESIGN FRANCO VISIOLI E DARIO FELLI
LUCI SIMONE DE ANGELIS
ASSISTENTE AL PROGETTO ARTISTICO BRUNELLA GIOLIVO
I VIAGGIATORI MARINA CAPPELLI, GENEROSO CIARCIA, RACHELE ESPOSITO, CIRO GIACCO, DANTE MAGGIO, SERGIO MARCHI, ANTONIO MILIZIA, BRUNO MINOTTI, AURORA PAGLIA, ELENA PANDOLFI, VINCENZO PENGO, MANLIO PETAGNA, PATRIZIA QUARTO, VANDA RICCIO, ADRIANA SPARANO, ANTONIETTA TAMMARO, MARIA TITOMANLIO, FRANCESCO VACCARO, LUIGI VINCI
ASSISTENTE ALLA REGIA PAOLO COSTANTINI
DIRETTORE DI SCENA DOMENICO RISO
MACCHINISTA MARCO DI NAPOLI
DATORE LUCI SIMONE DE ANGELIS
FONICO DARIO FELLI