LE NOTTI BIANCHE e ROSE SELVATICHE @ Festival inDivenire: storie di sognatori e di vite votate agli altri

Il Festival inDivenire, in corso fino al 12 Ottobre presso lo Spazio Diamante di Via Prenestina 230 rappresenta sicuramente un’ottima occasione per immergersi nelle realtà teatrali più o meno emergenti della scena italiana, ma anche per toccare un caleidoscopio di tematiche e ispirazioni.

È quello che è avvenuto nella serata dell’8 Ottobre, con due testi sicuramente coraggiosi anche se, ognuno a suo modo, non esenti da difetti.

Prima piéce, alle 19.30 – orario che ha un po' penalizzato lo spettacolo in termini di affluenza – Le notti bianche, messa in scena dalla compagnia PianoinBilico di Milano, testo di Livia Castiglioni e Dario Merlini, con Silvia Giulia Mendola e Paolo Garghentino, anche registi.

Più che ‘ispirato a’, un adattamento vero e proprio del celebre racconto di Fëdor Dostoevskij: un ragazzo e una ragazza si incontrano su un lungofiume, nella strana atmosfera di una serie di notti soleggiate; le rispettive solitudini li spingono a raccontarsi l’un l’altra, finché una variabile inaspettata decreta una fine precoce per quella che sembrava l’occasione, almeno per lui, il ‘sognatore’, di affrancarsi da una vita reclusa fatta di illusioni.

Molto interessante la scenografia, formata da una serie di pannelli collocati a distanze diverse dal palco, dove vengono proiettati ambienti o che semplicemente intersecano le luci, definendo, assieme alle musiche Gipo Gurrado, l’atmosfera sognante delle ‘notti bianche’.

Solide le interpretazioni di entrambi gli attori, più convincente quella di Silvia Giulia Mendola, laddove Paolo Garghentino, seppure in pochissime occasioni e mai in modo da pregiudicare la messa in scena, perde talvolta il ritmo.

Messa in scena che risente invece e purtroppo di una criticità insita nel testo: l’attualizzazione e decontestualizzazione del testo di Dostoevskij, oltre a sembrare superflua, distoglie dall’aspetto analitico tipico dell’autore in più di un’occasione, chiamando in causa per le notti bianche un improbabile fenomeno atmosferico che pervade il testo in modo incombente, lasciando presagire qualcosa che non arriverà, né ha ragione di arrivare dal momento che tutta la vicenda si snoda su un piano psicologico.

Anche dal punto di vista sentimentale, l’attualizzazione diluisce parte della tensione: alcuni tratti dell’alienazione dei due protagonisti e del loro rapporto appare poco credibile – nella forma più che nella sostanza – in un contesto attuale, rispetto alla prima metà dell’Ottocento russo.

A parere di chi scrive, si poteva mantenere l’originale ambientazione, senza introdurre macroscopici artifizi narrativi: il racconto originale si svolge nel periodo dell’anno in cui a San Pietroburgo il sole tramonta normalmente alle 22. La bravura dei due interpreti e le ottime scelte registiche e scenografiche cui abbiamo assistito, avrebbero facilmente evocato nello spettatore anche l’ambientazione storica.

Dalle 21, assistiamo invece a Rose Selvatiche, della Compagnia Raizes di Palermo, testo e regia di Alessandro Ienzi, con Irene Ciani, Elisa Novembrini e Jacopo Provenzano.

Testo ispirato alla vicenda, reale e attualissima, di Nasrin Sotoudeh, avvocatessa iraniana attualmente detenuta a causa del proprio impegno nella causa dei diritti umani in Iran, in particolare per quello che riguarda le donne.

La scelta del regista Ienzi è di privare la messa in scena di tutto ciò che non sia essenziale al racconto da parte degli attori; nessun elemento scenografico, dunque, a parte una scodella con dell’acqua, che diventa elemento allegorico dell’assistenza a chi è vessato.

È infatti proprio l’avvocatessa, interpretata da Irene Ciani, che deterge con l’acqua le ferite di una donna (Elisa Novembrini), incarcerata per aver partecipato ad una manifestazione per i diritti civili; il regime è invece rappresentato da un ufficiale (Jacopo Provenzano), che vediamo all’inizio cagionarne le ferite.

Durante la pièce assistiamo alla resistenza dell’arrestata, tornata al proprio paese dopo una lunga assenza, senza aver contezza dell’involuzione democratica che ne determinerà l’arresto; la sua indomabilità, l’attaccamento alla libertà, condizioneranno l’avvocatessa che si fa avanti per difenderla, sicura del fatto che uno spiraglio di diritto esista ancora nel suo paese, e valga la pena perseguirlo.

Non c’è speranza per i loro corpi: il regime è ancora più spietato nel piegare le donne in quanto tali, ma l’avvocatessa, seppur fallito il suo compito, attingerà alla forza della sua assistita per un’ultima, personale resistenza.

Coraggiosa la tematica e ammirevole la volontà della compagnia di mettere in scena una vicenda e un personaggio colpevolmente poco seguiti dai nostri media, dobbiamo purtroppo constatare che la messa in scena non raggiunge totalmente il suo obiettivo, principalmente per due fattori.

Il primo, sembra essere il testo che, seppur raccontando una storia dal forte impatto, opta per una rilettura della vicenda quasi ‘cinematografica’, più che da teatro civile, e forse per questo cade talvolta in clichès, sia nella messa in scena che, soprattutto, nei dialoghi.

Il secondo elemento sono le interpretazioni. Sicuramente non carenti sul profilo tecnico, i tre interpreti pagano probabilmente lo stile del testo e forse un’eccessiva enfasi dovuta al tema, che ottiene l’effetto contrario: le azioni sulla scena ci appaiono più come opera di finzione che come reali condizioni umane.

Si perde dunque l’occasione che rappresenta il teatro, rispetto allo schermo, per raccontare la realtà: quella di avere di fronte e dal vivo emozioni, passioni e dolore.

Delle carenze che, a ogni modo, poco tolgono al merito che ha questa giovane compagnia – autori inclusi – di aver scelto di cimentarsi con una vicenda umana molto dura: un impegno a non accontentarsi di narrazioni banali, che fa ben sperare per i loro prossimi lavori.

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