Il Roma Fringe Festival, Festival indipendente per antonomasia -così voluto quando nacque nel Regno Unito (Edimburgo)- apre i battenti al fiume di pubblico intervenuto per gustare la sua versione nostrana, ed è un immediato piacere epidermico per chi ama il Teatro come noi, qualcuno l'avrà colto nell'espressione del volto intento a fissare la fila… Quel Teatro del piacere tanto vessato e barattato con altre forme di intrattenimento meno nobili e più di immediato consumo e digeribilità. Sul palco A è andato in scena “L'affare Melghera” di Niccolò Matcovich (già recensito come regista in QUEL NOIOSO GIORNO D'ESTATE) , con Gabriel Montesi e Antonio Orlando (Compagnia Habitas) e la regia dell’esordiente Chiara Aquaro.
Nel lavoro di Matcovich, abilmente orchestrato dalla giovanissima Aquaro, c'è un messaggio volutamente confuso, mescolato tra i gesti, le parole, gli echi dei due fratelli. Non c'è immediatezza: si chiede allo spettatore distratto di cambiare registro e dunque di lasciarsi attrarre dalla poesia e linguaggio della trama ordita ad arte. Testo non denunciato da subito dunque, si indugia sui movimenti, sui dubbi, sul morso sonoro di una bestia antropomorfa che il pubblico può sentire ma non vedere. Un brontolio terrificante che non si sa da dove arrivi di preciso, ma è come se si annidasse nell'aria: come una minaccia, come una promessa di sangue, un anelito di morte o forse di vita. Come una provocazione, infine. La bestia ringhia da lontano ma può essere lì, ad un soffio dalla gamba, dalla polpa delle carne; a strappare la vita e portarla via come un brandello informe di niente perché di niente ormai è fatta. Il fluido della quotidianità, logoro e logorante, come vino acidulo in instancabile mescita, ha svilito la vita stessa sottraendogli il significato genuino ed il sapore buono che emanava nelle belle giornate ventose quando l'aria veicola ogni cosa, persino l'amore.
Uomini bestiali si annusano e per mera coincidenza, in questo luogo: “Il Mattatoio”, dove una volta le povere bestie, senza colpa, venivano sezionate in porzioni da brace; qui c'è una scarnificazione più profonda che tralascia la materia e si avventa bramosa sull'anima sino a lasciarla nuda e scevra di segreti, bugie o veli. L'ambientazione scenografica di Damiano Olivieri è magistralmente sgradevole: un anfratto buio d'esistenza maleodorante dove è scivolato uno dei fratelli e personaggi della storia. In effetti, più che scivolato vi si è infilato di proposito in quell'antro di mondo dimenticato. Un eremita per vocazione, scelta o meglio (si scoprirà) per carenza di alternative perché coerente con il suo intimo sentire. ed è per questo che si è rintanato lontano da quel fluido corrosivo del denaro, eppur tuttavia non è salvo: vive o sopravvive in questa terra ormai umida del male, pervasa dal fluido che raggiunge i pertugi più remoti e gli procura un prurito perenne. Qualcosa scorre sotto la pelle dell'eremita, è un malessere che non lascia da solo neanche la solitudine dell'uomo. L'altro fratello è elegante, moderno, di carriera, veste alla moda; arriva da lontano e conquista ansioso la scena. Inveisce contro l'altro. Sì, perché la pièce è anche la storia degli opposti. Stessa leziosa cultura, specie nell'uso dei congiuntivi e l'etimo di certe forme espressive, ma la vita e l'indole li ha portati, i fratelli, a condurre esistenze antitetiche.
Qui l’autore ci dice (crediamo) che la cultura in questo nuovo mondo non innalza, come invece sa fare il denaro. Sono due esseri impauriti quanto arroganti: arroccati sulle due aride sponde dirimpetto; ognuno crede d'essere nel giusto e lancia sentenze all’altro come lapilli incandescenti, ma nessuno si avvicina al punto mediano e dunque al punto agognato di equilibrio e pace universale e interiore. Cercando “l'altro” si cerca anche se stessi. Il fratello torna a ritroso nel luogo che un tempo fu, per quanto inospitale e angusto, focolaio familiare.
La baracca è il simbolo del tutto: affetti e materia. Il fratello alla moda torna per dare la triste notizia che il loro genitore non c'è più e per tentare di acquistare quel lembo dimenticato di terra perché oltre il valore materiale forse ha anche un valore di eredità affettiva? Torna, anche, per cercare di riesumare quel rapporto fraternale sepolto sotto la coltre dei rancori ispessita dal tempo. Il tempo copre e non cancella, e allora interviene magnifica e potente “l'Architettura della distruzione” per abbattere, sconvolgere, destrutturare il passato e vivere “il presente” come unico valore degno di vita che uccide i fantasmi di carne che vagano in superficie. L'eremita (lo chiameremo così per gentile licenza ottenuta dalla regista, dato che i personaggi non hanno nome) inveisce contro il fratello: lo accusa d'aver vissuto tagliando teste. La legge dello scalpo come una usanza lontana e tribale, è la legge che lui applica nella sua pseudo modernità fatta di carriera e ambizioni che in realtà ha origini primigenie. Per sopravvivere occorre uccidere il proprio simile, farsi strada nel cimitero dei corpi orizzontali e allineati alla truce rievocazione e applicazione della crudele legge darwiniana. Odio e amore, dicotomia rigorosa nella pièce diretta da Chiara Aquaro, sono serviti sullo stesso vassoio: il vincolo di sangue ancestrale dal quale l'uomo sembra non possa prescindere. I due sono oramai due uomini ma si insultano e si chiamano con epiteti adolescenziali tipo “piscialetto”, si prendono a pugni e ad abbracci vorticosi. Il sentimento vince su tutto, l'amore sconfigge l'odio e dipana i rancori. Le camere buie dell’animo dei due consanguinei si riempiono di nuovo di luce e calore. Il lieto fine non ci dispiace e lascia un buon sapore sulla bocca asciutta del pubblico incupito dalle necessarie premesse noir.
Il testo ci convince, è pensato. Corretto. Ricercato. Autentico. La regia dell'esordiente Aquaro alla sua prima assoluta rende un buon servigio all'autore e non lascia inespresse le motivazioni principali della drammaturgia. L’autore sale sul palco per accogliere l’agognato applauso. La rappresentazione presenta le imperfezioni canoniche della prima e peggio di un Festival che deve essere un orologio svizzero ma che può, di tanto in tanto, perdere qualche secondo… perché sullo stesso palco si alternano più spettacoli e gli attori non hanno sempre l'occasione di provare bene lo spazio, l'acustica, le battute. Quindi, ipotizzando che non ci sia stata una generale, comprendiamo il ritardo importante con il quale lo spettacolo ha esordito: certi effetti che coprivano la voce, le luci non appropriate che lasciavano troppo in ombra gli attori, anche quando avremmo voluto scorgere nell'intonazione del viso certi significati lasciati invece all'oblio del buio e del controluce di una lampadina accecante. Intenso e giusto Antonio Orlando nella sua interpretazione del reietto. Ha profuso energia nelle battute e nel movimento scenico. Gabriel Montesi, avrebbe dovuto articolare e timbrare di più con la voce o stare meno di spalle o di tre quarti per fare arrivare il senso di alcune battute chiave anche considerando che non si gode dell'acustica perfetta del vero Teatro. Molte battute sono coperte dall'effetto del ringhio della bestia o dai colpi inferti contro il bidone: un attore mestierante si sarebbe infilato negli spazi vuoti, ma va detto che neanche il fonico ha dato una mano ai poveri attori e allo loro intensa perfomance abbassando magari il volume degli effetti sonori, sempre in considerazione della meravigliosa kermesse teatrale che tanto offre ma qualche compromesso al tempo stesso impone.
Info:
L’affare Melghera
Habitas proveniente da Roma
di
Niccolò Matcovich
con
Gabriel Montesi, Antonio Orlando
regia
Chiara Aquaro
In programmazione per:
Lunedì 7 – ore 19:00 – PALCO A
Martedì 8 – ore 20:30 – PALCO A
Mercoledì 9 – ore 22:00 – PALCO A