DOIT FESTIVAL 2020: LUCE BIANCA, GLI ARROVESCIATI e MadeInTerraneo: quanto vale la Solidarietà  umana? – REPORT prima settimana!

Le prime tre serate del DOIT Festival ci lasciano belle pagine di teatro: LUCE BIANCA (Sharleena Teatro e Teatro Ygramul), GLI ARROVESCIATI di Giorgio Cardinali e MADEINTERRANEO di Andrea di Palma sono tre diversi testi che affrontano, in un modo o nell’altro il concetto di Comunità e di Solidarietà Umana, sul cui valore tanto abbiamo ragionato nel buio periodo da quarantena da COVID-19 e che forse, tanto ci sfugge nella nostra epoca dominata dal successo e dal profitto e dimentica dei valori comuni.
Da una parte la comunità “da salvare e che ci salva” quella degli improvvisi ciechi di Saramago riproposti, fieri, in LUCE BIANCA, dall’altra quella degli scioperanti arrabbiati del secolo scorso de GLI ARROVESCIATI in cerca di unione e fronte comune contro il Potere. Dall’altro la Comunità estesa del Mediterraneo, i cui principi di solidarietà sono antichi, epici e andrebbero ricordati e coltivati di più ai giorni nostri, per salvarci dal disfacimento culturale ed economico degli ultimi secoli, ed alla luce delle emergenze migratorie e ambientali che minacciano il Mare Nostrum ed i popoli del Mediterraneo.

Questa settimana (dal 1 al 3 ottobre) tre nuovi spettacoli (Vedi sotto e l'elenco spettacoli del DOIT FESTIVAL su Gufetto) vi aspettano dalle ore 21.00 al Teatro Ar.Ma che ospita la Manifestazione, in piena sicurezza e rispetto della normativa anti-covid-19, ci teniamo a precisarlo come plauso all'impegno profuso per assicure a tutti un accesso alla struttura nel rispetto del distanziamento minimo dei posti e delle principali misure igienico-sanitarie possibili.
 

LUCE BIANCA: quella solidarietà umana che ci manca
recensione di Antonio Mazzuca

Il DOIT festival apre le danze dell’edizione 2020 con uno spettacolo di livello, intenso, attuale, spiazzante: LUCE BIANCA, prodotto da Sharleena Teatro e Teatro Ygramul MaTeMù/CIES – Roma e liberamente ispirato al romanzo Cecità di José Saramago.
Sul palco un'attrice di esperienza dalla forte carica drammatica, Silvana Mariniello che ha curato la drammaturgia di questa riscrittura per il teatro già prima dell’emergere della pandemia a cui questo testo sembra inevitabilmente legato; ma dietro c’è anche l’ineffabile regia di Vania Castelfranchi del Teatro Ygramul, una regia attenta, sofisticata, che sottolinea ogni parola, valorizza ogni gesto, riempie la scena di elementi uditivi (tanti i rumori di fondo, a volte fin troppo invadenti), visivi (il giro di luci, studiatissimo) e persino olfattivi (per riprodurre il senso di sporcizia che nel testo originale ha un significato di degrado anche morale).

LUCE BIANCA: l’epidemia che tutto trasforma dal Covid-19 alla CECITà di Saramago al DOIT festival

L’intento drammaturgico della Castelfranchi ha rispettato piuttosto fedelmente l’opera originaria dell’autore portoghese, e lo ha adattato ad un monologo dove l’interprete viene chiamata a impersonare più ruoli, (anche se il meglio viene dato con la figura della Moglie del Medico, l’unica vedente in un mondo diventato improvvisamente cieco).
Anche qui, come in Saramago, la Castelfranchi racconta dei primi uomini divenuti ciechi e internati “in quarantena” in un manicomio per evitare il diffondersi del contagio, seguendo la trama originale. Emergono dal buio evocati dall’attrice anche gli altri immortali personaggi (la Moglie del Primo cieco, il Primo Cieco, la Ragazza dagli occhiali scuri): possiamo quasi vederli muoversi, fragili e confusi intorno ad una sedia polifunzionale e mobile, elemento scenografico che si presta a rappresentare diversi contesti (una sedia di una sala d’aspetto, un letto, una scrivania) e che ha diversi artifizi (luci, meccanismi) che la trasformano di volta in volta in un elemento quasi vivo (una caratteristica saliente del Teatro Ygramul è l’uso degli attrezzi scenici) che riempie l’attenzione dello spettatore insieme ad una forte luce bianca, che dovrebbe costringere lo spettatore a provare l’esperienza di cecità descritta da Saramago.

LUCE BIANCA: l’assunzione del Male per liberare gli altri; quel male che non possiamo vedere

Intorno da un raffinato gioco di luci, il testo di Saramago ci appare trasfigurato in un’aurea quasi di sacralità: tutta la performance esalta questo senso di solidarietà umana necessaria, tanto più pregnante ed attuale oggi che il mondo affronta una epidemia vera – quella da Covid-19- e dove la domanda che emerge sottesa e strisciante è : quanto vale il “prendersi cura” l’uno dell’altro al giorno d’oggi? Quanto è importante trovare degli occhi che vedono la realtà e che vedono “te” e ti “mettono al sicuro” dal Male?
In più, il testo accoglie sfumature più femministe proprio legate alla figura della Moglie del Medico, che coraggiosamente prende per mano tutti e soprattutto le donne in un afflato femminile unico, nella rivalsa contro i Ciechi malvagi che le stuprano nel manicomio, in un impeto di ribellione femminista al dominio maschile, sotto-tema di quello più generico di critica al Potere ed alle logiche di asservimento al Bene comune di cui è condito il testo di Saramago.
Coglie nel segno questa performance vigorosa nella riproduzione dell’attrice, ma forte e potente nel valore simbolico che essa riveste, soprattutto sul finale quando la catarsi liberatoria della pioggia improvvisa che colpisce i ciechi liberati, diventa assunzione del Male della cecità negli occhi della Moglie del Medico che, nella versione della Mariniello, diventa lei stessa non vedente rendendo gli altri finalmente vedenti e lasciandoci altre domande: “Quanto siamo portati ad assumere il Male dentro di noi, per salvare gli altri? Quanto siamo pronti? Quanto abbiamo paura del Male che non possiamo vedere, anche quel morbo, il coronavirus che non possiamo vedere?

GLI ARROVESCIATI. Una favola dannatamente vera
recensione di Ilaria Taranto

In occasione della seconda serata del Festival, dopo l’esordio nella prima edizione, torna sul palco Giorgio Cardinali. Personalità poliedrica: ricercatore attento alle fonti, redattore dei testi drammaturgici, reporter sensibile a quelle vicende, poco o punto note, ma che hanno sempre al centro l’umanità, in tutte le sue sfaccettature. Tornare laddove tutto ebbe inizio è toccante, per quanto lasci un delicato senso di nostalgia.

Eppure, mai come quest’anno un ritorno emoziona, fa trattenere il respiro e fa rabbrividire fino alla distensione piena dell’animo.

Lo spettatore prende posto, predispone la mente all’attenzione e all’ascolto, adatta la vista al buio. È l’inizio!

GLI ARROVESCIATI: Calabria anni ’50 e lo sciopero al contrario, una storia vera

L’atmosfera è scarna, come essenziale è la storia che l’attore -unico in scena- si accinge a raccontare. Si descrive un borgo del Meridione abitato da braccianti, asserviti e senza dignità. Stanchi di essere sopraffatti dalla prepotenza e dalla iniquità, sollevano la testa e si mettono in gioco per appropriarsi di ciò che spetta loro: riscatto sociale, libertà, autonomia. L’opportunità è data dal profilarsi di un progetto che, se portato a termine, rivoluzionerebbe la vita di ognuno di loro: realizzare una strada che colleghi la montagna alla campagna; creare un crocicchio di commercio, di libera iniziativa, di emancipazione.
Senonché il progetto contrasta con gli interessi del losco barone del luogo, don Antonio, raccontato e “disegnato” come un avvoltoio privo di scrupolo che farà di tutto per impedire ogni minimo mutamento. Ma a fronte di questo ostacolo, gli abitanti non si rassegnano: il modesto contadino Gino – come Lisistrata esasperato dalla guerra- incoraggia i suoi simili a impugnare pale e picconi, ad osare perché tutti, grazie a quella strada, trovino la propria via di riscatto.

GLI ARROVESCIATI: Cardinali sfrutta quadri e dialetti per raccontarci un’altra Italia

E questa rivoluzione lo spettatore la ha chiara, nitida davanti a sé: Giorgio Cardinali in questa bella pagina di teatro di narrazione, avvalendosi di forme dialettali, precise ma comprensibili anche ai meno avvezzi, incarna ora i panni del signorotto, ora quelli dei padri pezzenti, ora dei bambini, ora delle vecchiette. Il tutto è coadiuvato dalle rappresentazioni pittoriche che scorrono in scena: frutto della mano di uno dei protagonisti dell’epoca, esse rimandano, col giallo, alle distese di grano, col verde e il marrone ai campi e alle rocce della montagna, con i tratti rossi alla fatica e al sudore. La somma di questi colori irradia un senso di comunità che oggi si fa fatica a percepire o, nei casi più fortunati, a salvaguardare. Tanto si è consumati dall’egoismo e dalla competizione.
La testimonianza di chi quella vicenda l’ha vissuta, l’ha combattuta, ammorbidisce gli spigoli emotivi dei presenti e incoraggia a guardare al passato, a un passato recentissimo, non con diffidenza nei confronti del presente ma con ottimismo. L’invito è smantellare quella corazza che ci opprime e che fa essere continuamente homo lupus homini.

MadeInTerraneo di Andrea di Palma: il potere empatico della narrazione tra le onde del “mare nostrum”
recensione di Francesco Raducci

Raramente uno spettacolo riesce nella sua estrema semplicità scenografica e registica ad essere potente e commovente. Ed è un piccolo miracolo di bellezza quello della pièce MadeInTerraneo andato in scena al teatro Ar.Ma all’interno della rassegna Do.It domenica 27 settembre.
Un solo attore in scena Andrea di Palma, due musicisti Giacomo Gatto e Francesco Cellitti ci accompagnano in un lungo e variegato viaggio sul concetto di Mediterraneo e delle sue tante Comunità.

MadeInTerraneo: il Mediterraneo come un set emozionale

Il nostro mare diventa non sol il “set” della narrazione, ma protagonista assoluto di questo monologo che con grazia ed eleganza racconta come abbia accompagnato nel passato e nel presente, nell’epica come nella realtà, l’universo non solo degli esseri umani, ma delle creature viventi in genere. Si passa dal mito di Enea, Palinuro e Didone, sino al dramma dei migranti, allo struggente dialogo-favola tra una tartaruga caretta caretta e di una profuga dalla pelle scura come la notte. Ma anche incredibili parallelismi fra il Mito, l'epica e la realtà contemporanea, non solo della Migrazione, ma anche dell'inquinamento, del traffico clandestino di beni e persone dalle rotte turche a quelle africane ed italiane.   
Quello che stupisce di questo piccolo ma immenso spettacolo e la potente sinergia che si instaura tra la delicata e raffinata drammaturgia e la recitazione fortemente empatica di Andrea di Palma (che cura la drammaturgia con il contributo di Federica Ponza). Esattamente come il mare, e le sue mille sfumature, l’attore riesce attraverso le parole ad essere come onde, delicato, poetico ironico come il mare in estate, potente e doloroso come in flutti violenti che si infrangono sugli scogli.

MadeInTerraneo: tanta commozione al Teatro Ar.Ma durante il DOIT Festival

Le emozioni arrivano forti alla pancia e al cuore, creando nello spettatore un senso di appartenenza e rispetto nei confronti delle tematiche trattate. Ci si immerge in questo, visto come tempio di bellezza assoluta ma anche cimitero, come compagno di viaggio e di sogno, come amante dolce e crudele, come fautore di speranza e dolore sempre, nel passato, nel presente e nel futuro. Mille emozioni si sfumano, su piani paralleli, portando spesso alla commozione dello spettatore.
Uno spettacolo intenso di grande sensibilità artistica e poetica, in cui si ha la dimostrazione che le parole, se ben scritte e ben raccontate, non hanno bisogno di costumi, luci, scenografie o di eccessi narrativi tanto amati nel vecchio teatro.

Prossimamente al DOIT FESTIVAL

Giovedì 1° ottobre 2020 – ore 21:00

The Hiddens, scritto da con e per Facebook

Compagnia Le Lucciole – Carpi (Mo)

Testo e regia Federica Cucco

Con Paolo Bruini | Mariangela Diana

Progetto fotografico Alessia Cocconi

Soluzioni sceniche Federica Cucco | Alessia Cocconi

Le grandi dittature e i totalitarismi in Italia sono finiti. Un uomo e una donna qualunque hanno imparato a stare sempre dalla parte della maggioranza, la parte del vincitore. Quell'uomo e quella donna devono arrivare alla fine della settimana, ma c'è tanto da fare, tanto da dire e, soprattutto, tanto da odiare.

Per mantenere l'ordine sociale, ogni giorno, c'è da mantenere vivo l’odio. Una rabbia viscerale da esprimere, verso qualcosa, verso qualcuno. Poche indicazioni dettate dalla televisione o dalla radio e dal lunedì al sabato si odia. In ordine sparso Facebook, Instagram, Twitter, Snapchat, meteo, email, Whatsapp, Messenger. Routine mattutina a cui nessuno può rinunciare. Non ci si annoia mai e soprattutto non si smette mai di imparare che qualunque cosa può essere odiata: dal gatto nero al bambino morto sulla riva di una nostra spiaggia.

Il linguaggio della drammaturgia dello spettacolo è stato tratto direttamente da queste piattaforme social, senza censura e senza vergogna.

 

Venerdì 2 ottobre 2020 – ore 21:00

Cantata per Valentin Arregui

Associazione Culturale Instituto – Roma

Regia Roberto Renna | Daniela Venanzangeli

Testo Giorgio Coppola

Con Andrea Casanova Moroni | Davide Montalbano

Assistente alla regia Francesco Amato

Scenografia Francesco Amato | Giorgio Coppola

 

È la nostra immaginazione che costruisce l’universo in cui viviamo.

Protagonisti della vicenda, ambientata in un penitenziario, sono due compagni di cella apparentemente incompatibili. Uno racconta trame di film all'altro, per passare il tempo, o almeno questa è la scusa, ma in realtà ciò di cui parta è sé stesso, attingendo a quel che ha nel profondo dell’anima, nell’insondabile. Manuel Puig, William Blake, Lars Von Trier, Jim Jarmusch, Luigi Pirandello, Samuel Beckett, Stanley Kubrick sono solo alcuni degli autori che vengono citati e che con le loro opere, i loro sogni, o film, raccontano sé stessi esattamente come i personaggi di questa storia, esattamente come noi tutti, incapaci e, allo stesso tempo, così abili a comunicare.

 

Sabato 3 ottobre 2020 – ore 21:00

Reginella

La Casa della Locusta – Rieti

Di e con Manuela Rossetti

Musiche originali dal vivo Laura Desideri

Light designer e foto Simone Palma

La memoria è un dovere sociale ed etico e va risvegliata partendo dalla reale comprensione delle migliaia di vite spezzate e interrotte, affinché tutto ciò non torni ad esistere mai più. Liberamente ispirato alla vita di Settimia Spizzichino, unica superstite donna del rastrellamento del ghetto di Roma -16 ottobre 1943- il testo affronta il tema della deportazione attraverso una vicenda personale, accentuando ogni elemento che caratterizzava la vita quotidiana nel ghetto, le leggi razziali, la deportazione. L'accento posto sulla vita e non sulle grandi vicissitudini storiche e politiche ha lo scopo di avvicinare il pubblico emozionalmente alla vicenda, facilitandone l'immedesimazione e, di conseguenza, la riflessione etica e morale.

Teatro narrativo, teatro-danza e musica dal vivo si intrecciano per sublimare in metafore e immagini la dolorosa esperienza della deportazione.

 

Domenica 4 ottobre 2020 – ore 16:00

Premiazione dei vincitori del DOIT Festival 2020

Premiazione dei vincitori del concorso di drammaturgia L’Artigogolo 2020:

Drammaturghi in azione: Sara Parziani con "Romanzo di un' anamnesi"

Drammaturghi esordienti: Lorenzo D'Este con "Il Novantista"

Menzione speciale: "Tempo reale" di Roberto Radicioni.

Presentazione editoriale delle monografie teatrali dei testi vincitori de L’Artigogolo 2019:

“Dov’è la Vittoria” di Agnese Ferro, Giuseppe Maria Martino, Dario Postiglione, “Hotel Poe e Il violino relativo” di Riccardo Bàrbera e “La scomparsa di Juan Voight” di Emanuela Dal Pozzo.

a cura della casa editrice ChiPiùNeArt.

 

 

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