Appunti dal Roma Fringe Festival 2020: PRENDI I MIEI VESTITI, A QUEL PAESE

In occasione dell’8° edizione del Roma Fringe Festival, il brulicare di persone di ogni età all’interno dei locali del Mattatoio – La Pelanda (Ex MACRO Testaccio), i volti di giovani universitari e di coppie di anziani hanno suscitato a Gufetto diverse emozioni e, proprio per questo, abbiamo mantenuto coerenza nella scelta di due spettacoli che nulla hanno in comune ma che anzi si trovano agli antipodi tra loro: PRENDI I MIEI VESTITI, monologo – testimonianza sulla violenza sulle donne e A QUEL PAESE, favola moderna che inneggia all’ottimismo e al “carpe diem”.

PRENDI I MIEI VESTITI: accecata d’amore, la diagnosi di Elvira

Regia e drammaturgia di Giulia Innocenti nei panni di Elvira, una donna vittima di violenza che non riesce a metabolizzare e dare un nome a ciò che le è capitato.
La Innocenti, in questo monologo, porta gli spettatori nei meandri della sua mente, nelle contorsioni della sua psiche dove Orazio, il suo compagno violento, in realtà è il principe azzurro che lei ha sempre desiderato e dove il loro amore subisce gli agguati da chi cerca di metterla in guardia.
Non esiste realtà, non esiste finzione: il pubblico si perde nelle reminiscenze e nelle visioni della donna che, vestita con abiti dismessi, parla al suo Orazio come fosse un fantasma la cui presenza aleggia sulla scena e che, a volte, è protezione e ,a volte, è pericolo.
Nell’incedere del testo, la Innocenti simula traumi commotivi nei quali Elvira crolla a terra e inizia a contorcersi come una foglia fragile, specchio evidente di quella fragile identità femminile che la stessa aveva consegnato nelle mani del suo uomo.
Seppur lento e a tratti difficile da seguire, sarebbe stato più utile rimanere su questo filone drammaturgico, evitando il colpo di scena in cui Elvira, prendendo improvvisa coscienza della propria condizione, si cambia d’abito e assume improvvisamente quella femminilità che finora aveva sacrificato in nome del suo uomo; di colpo, inizia quindi una testimonianza quasi biografica delle vessazioni e delle violenze da lei patite in tutti quegli anni.
Una scelta infelice quest’ultima perché, riportando lo spettatore nella cruda realtà, gli si presenta la stessa come effettiva e ineluttabile, appiattendo la pièce e le stesse capacità attoriali della Innocenti che, da attrice a tutto tondo, diventa fredda cronista di una storia che, forse, la platea avrebbe più efficacemente percepito se fosse rimasta nell’alveo di quella patologica follia in cui Elvira aveva fatto luce.

A QUEL PAESE: la speranza nel futuro come fuga dalla routine

Un grande gioco teatrale, quello portato in scena da Francesco Civile e Daniel Dwerryhouse, dove l’obiettivo è scoprire la differenza tra esistere e vivere e quell’obiettivo viene fatto raggiungere, con inaudita generosità, al pubblico.
Una favola moderna, una commedia fresca dove, dall’incontro tra un uomo abitudinario e due pittoreschi ed eccentrici personaggi, emerge la necessità di ognuno di noi di trovare le priorità della vita.        
Civile e Dwerryhouse giocano con i costumi ridotti all’essenziale, coi gesti e con la musica, riuscendo quasi sempre a rendere il pubblico a sua volta protagonista, catapultandolo in una turbina a tratti nonsense di personaggi, luoghi e storie.
A QUEL PAESE è una commedia che, schiacciando l’occhio al teatro dell’assurdo, rispetta i canoni della favola classica; un prologo che, a tratti, risulta scarno ma che si evolve in maniera convincente in un intreccio in cui i due attori, aperti all’improvvisazione con la platea, riescono a mandare un chiaro messaggio.    
Accanto ad un Dwerryhouse molto preciso nel saper giocare tra personaggi caricaturali e genuinità, emerge Francesco Civile che, nella sua innata introversione, ci dimostra come il teatro sia spesso davvero la cura di ogni animo nobile.
Commedia convincente e piacevole, anche se a volte un po’ eccessivamente disordinata e tendente al cabaret frivolo durante le interazioni col pubblico.

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