ALBANIA CASA MIA@ Dominio Pubblico: il confine che delimita chi siamo

ALBANIA CASA MIA di e con Aleksandros Memetaj, per la regia di Giampiero Rappa, è andato in scena il 5 giugno al Teatro dell’Orologio per la rassegna DOMINIO PUBBLICO – LA CITTA’ AGLI UNDER 25, (progetto multidisciplinare ideato dal Teatro Argot e dal Teatro dell’Orologio dal 2 al 5 giugno) 

Le mani del pubblico battono forte prima ancora che l’attore inizi il suo monologo: un giovane ragazzo con i capelli scompigliati, rannicchiato su un rettangolo nero che ricalca con un gessetto, intorno a sé, i confini della sua terra natia, l’ Albania. Aleksandros (o Sandro) rimane all’ interno di quello spazio perimetrato per tutto il tempo del monologo, un’ intera ora con i piedi ben piantati a terra e la testa tra i ricordi: quelli della sua infanzia vissuta “nel mezzo” e quelli raccontati dai suoi genitori, da suo padre, Alexander Toto, che nel 1991 appena 30enne decise di lasciare la sua Valona “sul mare” per cercare fortuna in Italia, dopo che, caduto il regime comunista che per più di 45 anni ne aveva controllato e limitato la libertà dei cittadini albanesi, fu permesso l’ espatrio. Cresce così a Fiesso D’Artico, un piccolo paese di settemila anime tra Padova e Venezia, parlando due lingue di cui una inutilizzabile ma che gli permette di usare le parole “a suo piacimento”, come solo “un’ artista del linguaggio” sa fare.

Albania casa mia è una narrazione autobiografica, un viaggio nel vissuto del giovane attore alla ricerca e alla scoperta delle sue radici attraverso gli occhi e la sensibilità di un bambino che ancora non sa dare un significato alle cose ma che sente e vive in modo intenso: ci parla del problema della propria identità, quella “k” nel suo nome che gli restava sempre bloccata in gola e quel cognome che nessuno riusciva a pronunciare ma soprattutto a memorizzare, e di quella “voragine nel cuore” provocata da Matteo e dai suoi atti di bullismo e di razzismo, a volte persino di odio, ingiustificato. Memetaj “raccoglie parole” e il meltin- pot linguistico e stilistico di italiano, albanese e dialetto veneziano/padovano colora e rende vivi i personaggi della sua narrazione, ben caratterizzati anche nei gesti: i suoi due cugini, il temuto amico Matteo, un collega nella fabbrica di scarpe, suo padre, le migliaia di persone nel porto di Valona che cercano di scappare verso l’Occidente perché “c’ è da perdere il futuro ad esempio”.

La composizione registica è essenziale, non c’ è musica, non ci sono giochi di luci: Aleksandros e la sua Albania hanno riempito la sala facendoci sorridere, riflettere, assaporare odori e sapori (dallo “spritz, ombra e bianco” veneziano al raki, la tipica grappa albanese). Ma Albania casa mia è anche e soprattutto un testo che parla di un popolo che emigra perché “Non c’ è speranza”, la malattia più brutta in cui uno stato possa cadere (e qui Memetaj strizza l’occhio anche alla nostra bella Italia), aprendo una riflessione su uno dei fenomeni sociali più caldi dei nostri tempi e che oggi potrebbe vedere quei porti di Valona e Brindisi ancora protagonisti di nuovi sbarchi, ma con nuovi migranti, o meglio rifugiati, bloccati in Grecia “uomini ammassati in attesa di un sogno comune trasportato da navi per fuggire dalla terribile terra-madre”: la possibile apertura della cosiddetta “rotta albanese”.
Sembra un cerchio che si chiude, un circolo vizioso. Memetaj ci ha regalato una parte di sé, come fa un vero artista non solo del linguaggio ma anche delle emozioni e al quale non possiamo che dire grazie.

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