Takoua Ben Mohamed è una giovane fumettista nata a Douz, in Tunisia, e cresciuta a Roma. Classe 1991, a otto anni è arrivata in Italia con la famiglia per ricongiungersi al padre, costretto all’esilio quando lei aveva solo pochi mesi di vita. Le sue graphic novel sono pubblicate da BeccoGiallo Editore.
Nel primo albo pubblicato per Becco Giallo, Sotto il velo, Takoua racconta con pungente ironia la quotidiana opera di sopravvivenza di una ragazza con l’hijab in un mondo pieno di stereotipi sessisti e islamofobi. Al secondo graphic novel, La rivoluzione dei gelsomini, ha affidato il compito di raccontare la storia della sua infanzia in Tunisia. Il tratto semplice e il disegno essenziale ricordano le illustrazioni per bambini, ma le storie di Takoua sono concepite per un pubblico capace di affrontare questioni complesse e di stringente attualità.
Come è nata la passione per il disegno?
In realtà, ho iniziato a esprimermi proprio disegnando. In seguito ho imparato a camminare e, per ultimo, a parlare. Il disegno è stata la mia prima forma di comunicazione con il mondo. A scuola ero la disperazione dei miei insegnanti, perché i miei voti non erano mai all’altezza delle loro aspettative. Ma anche perché non ho mai trovato un insegnante che riuscisse a capirmi. Per questo motivo la mia formazione è avvenuta più al di fuori che dentro le mura scolastiche.
I tuoi disegni sono molto particolari: ricordano i disegni stilizzati in uso nei libri per bambini. Come mai questa scelta?
Certo, il disegno sembra semplice, ma dietro vi è un grande lavoro di eliminazione del superfluo per far emergere il necessario. Si tratta di un processo di scarnificazione, di sottrazione degli elementi che, se lasciati sul foglio, toglierebbero impatto al tema e quindi al messaggio. Nel mio lavoro la grafica non è che un mezzo. Sono molto più interessata al contenuto e non voglio che il lettore si distragga. La narrazione è per me vitale. In quanto donna nata in Tunisia e cresciuta in Italia, sento di dover lavorare per far comprendere la situazione delle tante ragazze e donne che, come me, vogliono preservare le identità multiple che le abitano.
I tuoi due albi parlano di una ragazza impegnata nel dialogo con le proprie origini. Qual è il tuo rapporto col paese natale?
Devo ammettere che non è mai stato semplice, né quando ci vivevo, né ora che manco da tempo. Ricordo un mio professore alle superiori, in una scuola nella periferia di Roma, che andava spesso in vacanza a Douz, la mia città natale, in prossimità del deserto del Sahara. Lui era conquistato da questo luogo e non si capacitava che io non volessi tornarci, pur avendovi ancora dei parenti. Ma c’era la dittatura di Ben Ali e io non potevo spiegargli le mie ragioni, per paura che le mie parole potessero nuocere a chi era rimasto lì. Per tanti anni non mi sono sentita a mio agio a parlare della Tunisia, e questo tabù mi ha impedito anche di fare domande alla mia famiglia per conoscere le mie origini, la mia storia prima dell’Italia. Solo la rivoluzione mi ha permesso di scoperchiare questo vaso di Pandora.
In che rapporti era la tua famiglia con il governo tunisino?
Diciamo pessimi. Mio padre e mio zio erano attivisti in lotta contro la dittatura, ma il loro destino è stato molto diverso. La mia famiglia viveva in paese di quarantamila abitanti, comunque più piccolo della capitale. Qui tutti si conoscono e si aiutano. Più difficile trovare la stessa rete di contatti a Tunisi, dove abitava mia zia, la sorella minore di mia madre. Lei era attivista in uno dei sindacati studenteschi all’università, e ha comunque avuto la fortuna di essere aiutata da una signora anziana che abitava vicino a lei: le affidava gli archivi del suo sindacato, materiali considerati molto scottanti dalla polizia, ma che la signora teneva nascosti in casa, perché tanto nessuno andava a perquisire la casa di una donna di una certa età.
Allora che differenza c’era tra città di periferia e capitale?
La differenza, almeno per la mia famiglia, è stata enorme. Il meraviglioso rapporto coi vicini ha permesso a mio padre di essere avvertito per tempo dell’arrivo della polizia e di poter fuggire prima dell’arresto. Per questo lui è potuto andare in esilio in Italia, anche se è dovuto partire quando io avevo solo quattro mesi. Mio zio invece, fratello maggiore di mia madre e professore, non è stato così fortunato: abitando in una grande città come Tunisi, alcuni vicini lo hanno denunciato e lui ha trascorso nove anni, dal 1991 al 2000, in un carcere per prigionieri politici, subendo torture inenarrabili, fino a quando è morto.
Anche le donne della tua famiglia erano impegnate sul piano politico?
Sì, certo, ho avuto degli incredibili esempi di determinazione e impegno da parte delle donne di casa, soprattutto da parte di mia madre, una donna dalla forza straordinaria che non smetterò mai di ammirare. Se penso che ha cresciuto sei figli da sola, col marito in esilio e la polizia che cercava ogni scusa per rovinarle la vita, mi sembra ancora incredibile quello che ha fatto.
È riuscita a preservare la vostra infanzia?
Mia madre ha fatto di tutto perché noi figli non ci accorgessimo che stavamo vivendo in un paese ostile. Nel nostro villaggio i poliziotti erano soliti di notte scavalcare i muri che separano i giardini delle abitazioni per fare incursione nelle case. Da noi arrivavano quando eravamo ormai tutti a letto. Dopo il loro passaggio, mia madre faceva di tutto per rimettere a posto il disordine che avevano lasciato. Un solo elemento le sfuggiva: le orme degli anfibi lasciate sulla terra del giardino. Ma noi bambini eravamo stati educati dal nonno a riconoscere le impronte di ciascuno di casa, e così capivamo quanta fatica stesse facendo nostra madre per nasconderci problemi e dispiaceri.
Nel libro racconti tutto quello che è successo ai tuoi genitori?
No, la verità è di gran lunga più brutta di ciò che ho scelto di raccontare. Ho dovuto scegliere gli episodi da disegnare e la modalità, anche perché lo stile che ho scelto non si addice a un racconto forte, ma al mondo visto con gli occhi di me bambina.
E come hai raccolto il materiale per scrivere la trama?
Ho fatto una lunga ricerca sul campo che mi ha impegnata a lungo. Ho visitato diversi archivi di partito, ovviamente alla fine della rivoluzione perché prima erano considerati illegali. Ho avuto la possibilità di documentarmi anche presso archivi raccolti da famiglie attiviste, di riviste e giornali censurati dal regime di Bourghiba e Ben Ali. Ho intervistato diverse persone che rivestono un ruolo importante nel settore politico e nei sindacati, oltre a molti attivisti. A tutto ciò, ho aggiunto i racconti di mia madre, che però non mi ha detto molto, mentre mio padre è stato più esplicito nel ricordare quel periodo. Per informarmi sulle carceri ho anche intervistato alcuni ex detenuti, ma il racconto delle violenze subite da loro, e quindi anche da mio zio, è troppo forte per essere riportato. Nelle carceri tunisine, mentre Ben Ali governava con la benedizione dei paesi europei, avveniva ogni tipo di violenza fisica e psicologica.
Ma tuo padre è riuscito a evitare questa parte della storia. Come è stato per te incontrarlo per la prima volta a otto anni?
Il nostro incontro è avvenuto a Napoli. Appena mi sono trovata davanti a quell’uomo dalla pelle così bianca e dagli occhi verdi, non potevo credere fosse mio padre. Mia madre ha dovuto giurarmi che era davvero lui mio padre, mentre io mi aspettavo un uomo più simile a mio zio, con la carnagione come la mia.
E l’incontro con la scuola italiana, a otto anni, come è stato?
Bè, non semplice. A differenza dei miei fratelli e sorelle più grandi, io non avevo ancora studiato francese a scuola e sapevo parlare solo l’arabo. Per loro è stato quindi più facile. Anche in questo caso, mi è tornato molto utile il disegno. Io disegnavo l’oggetto che volevo comunicare, e le maestre o i miei compagni mi insegnavano il nome degli oggetti.
Sei arrivata che eri una bambina, ma hai iniziato subito la tua carriera di attivista politica.
Sì, avevo dieci anni quando ho partecipato alla prima manifestazione per i diritti umani. Essendo la sesta di sette fratelli e sorelle, ho avuto la fortuna di ricevere molti stimoli da parte di tutti loro, più grandi di me per età. Ricordo quando a Roma si organizzavano manifestazioni ad esempio per la Palestina e vi partecipavano ventimila persone. Oggi è tutto cambiato. Ma ringrazio ancora la mia famiglia per aver avuto una precoce educazione al mondo dell’impegno sociale.
Anche l’uso del velo rientra in questo tuo impegno?
Sì. Avevo undici anni quando ci fu l’attacco alle Torri Gemelle. Non capivo bene cosa stesse succedendo, ma le mie sorelle maggiori decisero di iniziare a portare il velo, e io volli seguire il loro esempio.
Come reagirono i tuoi genitori?
Per loro fu una tragedia. Sono entrambi molto religiosi, ma per nulla fanatici né attaccati alle tradizioni. Mio padre mi spiegò che non potevo portare il velo per tre semplici motivi: ero troppo piccola, e ammetto che aveva ragione; non sapevo cosa stessi facendo e quale storia si portasse dietro il velo, e anche su questo devo dargli ragione. Infine, sosteneva che non mi stavo rendendo conto del significato che il velo avrebbe assunto dopo l’11 settembre. Allora io uscivo di casa senza il velo, giravo l’angolo e me lo mettevo in testa. Me lo mettevo male perché non riuscivo a coprire tutti i miei capelli, ma sentivo che dovevo farlo.
E quando hai iniziato a capire il significato di quel gesto?
Il giorno in cui un ragazzino, vedendomi col velo in testa, mi ha detto che ero una talebana terrorista. Io gli ho chiesto cosa significasse, ma nemmeno lui lo sapeva. Allora, una volta tornata a casa, l’ho chiesto a mio padre e lui ha capito che doveva prendere atto della mia scelta.
Per te cosa significa oggi il velo?
Volendo essere ironica, potrei definirlo una sorta di esperimento sociale. Forse è iniziato in questo modo, ma, una volta che sono cresciuta e ho potuto capire meglio il significato complesso del velo, spesso banalizzato in Occidente, posso dire di essere sempre più convinta della mia scelta. Ovviamente ogni donna che sceglie o meno il velo ha una storia diversa che va rispettata.
Qual è il modo in cui di solito ti senti giudicata dagli altri per questa tua scelta?
Come spiego nel mio primo libro, Sotto il velo, agli occhi di un maschio occidentale sono una donna che si copre il capo con uno straccio; per un praticante musulmano invece sono una donna che si trucca troppo e si veste all’occidentale; infine, per le femministe occidentali di una certa età porto in capo il mio problema e non mi ritengono quindi autorizzata a parlare. Solo le giovani femministe sono più inclusive e mi ascoltano. Di sicuro, se oggi mi considero una femminista, è soprattutto grazie al velo che porto.
Una situazione non semplice da gestire.
No, per nulla. È anche da questa esperienza che ho capito quanto sia importante dare voce a tutte le opinioni, anche a quelle indifendibili. Il mio allenamento all’ascolto l’ho avuto sui banchi di scuola alle superiori: in classe avevo un compagno fascista che gli insegnanti volevano stesse in banco con me. Non ci sopportavamo e litigavamo spesso, ma poi abbiamo trovato, un po’ alla volta, il modo di andare d’accordo. Alla fine, lui ha smesso di essere fascista e io ho capito quanto sia importante dialogare con tutti, anche con chi non la pensa come te. È essenziale parlarsi e non opporre muro a muro.
Ma come si fa a superare un pregiudizio?
Ho imparato che la quotidianità è molto sottovalutata, ma alla fine è un’arma potentissima per smussare gli angoli del pregiudizio e dello stereotipo, finché alla fine ne rimane ben poco. Posso dire di odiare un certo tipo di persona – musulmana, nera, rom –, ma poi, conoscendola davvero, mi accorgerò di pregi e difetti che spesso ritrovo in chi mi vive accanto da sempre.
È sempre così facile per te andare d’accordo con gli altri?
Dipende: se ho il tempo di conoscere a fondo una persona, come il mio vicino di banco, sì, da qualche parte si può arrivare. Se invece si tratta di un incontro fortuito, allora è quasi impossibile smussare il pregiudizio. Tempo fa ho preso il taxi a Roma per andare in aeroporto. Il tassista mi ha chiesto di dove fossi; quando ha saputo che sono di origine tunisina ma vivo a Roma, non si è trattenuto dal chiedermi: “E allora perché porti il velo?”. Poi sono arrivata in Tunisia, ho preso un altro taxi e il secondo autista, saputo che vivo a Roma, mi ha chiesto di nuovo: “E allora perché porti il velo?”.
Quindi l’Italia e la Tunisia non sono così lontane nel modo di ragionare.
E non solo: ricordiamoci che Italia e Tunisia distano solo 160 km, che in Tunisia quasi tutti conoscono l’italiano e che in Sicilia c’è una forte presenza di tunisini da tempo immemorabile. L’Italia è molto più simile alla Tunisia, per cultura e tradizioni, che non al Regno Unito, ad esempio.
Ma tu ti senti più italiana o più tunisina?
Per me è una domanda difficile questa, perché sento convivere in me entrambe le anime, senza riuscire a pensare che una debba prevalere sull’altra. Certo, trovo assurdo aver speso quasi tutta la mia vita qui e non avere la cittadinanza né il diritto di voto. Solo metà della mia famiglia li ha ottenuti, ma è ancora più assurdo pensare che il mio fratello più piccolo, nato in Italia e che è potuto andare in Tunisia solo dopo la rivoluzione, abbia bisogno del permesso di soggiorno. Non ha nessun ricordo che lo leghi al paese dei suoi genitori, dove va soltanto in vacanza. I suoi ricordi più importanti li ha costruiti tutti in Italia. Per lui la crisi identitaria avviene quando c’è il derby Roma-Lazio, perché si sente romano de Roma ma tifa Lazio. Un vero dilemma.
Se ti dovessi definire in qualche modo, che espressione useresti?
Mi piace usare quella di ottimista per difetto. Non riesco a non vedere il bicchiere mezzo pieno. Ma non sono un’illusa. Anche se non ho ancora trent’anni, la mia famiglia ha sofferto molto e io ho voluto ricercare quegli episodi che non ho potuto vivere con cognizione di causa perché ero troppo piccola. Oggi che la mia vita ha intrapreso una carriera che mi gratifica e mi permette di comunicare con un vasto pubblico, voglio mettere la mia abilità al servizio di chi sta peggio.
Progetti futuri?
Sono appena tornata da un viaggio in Thailandia e Cambogia, dove ho raccolto materiale per un prossimo libro sulla tratta degli esseri umani e la prostituzione.
E quando uscirà in libreria?
Dovrebbe essere pronto a settembre. Ma non dimentichiamo che sono un’ottimista per difetto.