Il popolo del diluvio è un volume estremamente complesso, nella lingua, nella struttura e nel modo di affrontare il tema della fuga e dell’esilio.
Pedrag Finci, professore universitario di filosofia, è costretto a fuggire dalla sua Sarajevo insanguinata dalla guerra. È il 1992: su un pullman che lo porterà lontano, Finci comincia un viaggio non solo fisico, ma prima di tutto mentale ed emotivo. È un esilio auto – inflitto in cui covano domande angosciose. È giusto andare via mentre tanti hanno deciso di restare? O forse è più giusto rimanere, non abbandonare la propria casa, i propri amici, la propria patria? Finci sceglie di andare perché sa che abbandona “ciò che era la mia vita per conservare ciò che forse può ancora essere la mia vita”. In questa possibilità c’è uno spiraglio cui si attacca per non soccombere a una guerra che ha stravolto e distrutto tutto quello che conosce.
La sua fuga è sì dalla disperazione e dalla paura, ma è profondamente intessuta dalla disperazione e dalla paura. Non è casuale il raffronto così giusto e commovente con gli ebrei che nel 1492, esattamente cinquecento anni prima di lui, furono cacciati dalla Spagna; si racconta che fuggirono con poco, ma che ognuno di loro aveva al collo la chiave della propria porta.
La speranza di tornare a casa è un filo sottile che si snoda in tutte le pagine: le sezioni in cui è diviso Il popolo del diluvio, Il viaggiatore – Il racconto – Il ritorno – La felicità, sono i momenti stessi della vita di Finci a partire da quel viaggio in pullman.
Colpisce la sua capacità di farci entrare nelle sensazioni, nel punto di vista di uno straniero in un Paese che lo accoglie ma lo guarda con sospetto. Lo straniero è “il commerciante che imbroglia, il nomade che ruba, il soldato che rapina e ammazza. Straniero: il lavoratore in nero, la prostituta, il parassita, il ladro. In Non – Io che non vale nulla, l’altro, nemico, inaccettabile, negativo, Satana”: in questo oggi di grandi migrazioni e uomini e donne abbandonati nelle acque, di muri costruiti per dividere, di ponti che crollano fisicamente e umanamente, il racconto di Finci, la sua definizione è un dono prezioso, che può scuotere le nostre certezze.
La Londra che lo accoglie, lui profugo in fuga da una guerra, era molto più bella sugli schermi e ora ha mille facce perché mille facce ha la condizione del profugo. Non è un caso che ne Il racconto Finci abbandona la sua percezione individuale, la sua memoria singola e la fraziona in racconti brevi, dove il soggetto narrante cambia sempre e cambia la sua situazione, le sue emozioni, le sue reazioni e la sua voglia di vivere. È un susseguirsi di riflessioni e riferimenti letterari: dal Bartleby di Melville a Gregor Samsa di Kafka, passando per Joyce, Conrad e molti altri ancora. Finci prende brani, personaggi della letteratura mondiale e li riveste di nuova vita, quella del rifugiato che deve sopravvivere e non abbattersi, quella dell’esiliato che sprofonda nell’inedia e nella disperazione, quella del profugo che si adegua alla corrente anche se sa di infrangere in qualche modo la sua identità. Non basta la sua esperienza di singolo, è necessario raccontare tutta questa discesa agli inferi in terra straniera.
Sia chiaro che non è un gioco letterario né il classico intellettuale che vuole sfoggiare la propria cultura: in questo caso, la scrittura diventa un atto di resistenza. Finci non vuole essere un Non – Io, vuole preservare la sua individualità nonostante il nucleo centrale di questo sé sia rimasto a Sarajevo. E nonostante tutto riesce a emergere da quel magma oscuro di dimenticati.
Il ritorno a Sarajevo avviene nel 2002, dieci anni dopo averla lasciata: l’autore non torna per restare, la sua vita ormai è a Londra, lì ha ricominciato, è tornato alla vita. E allora come può tornare? Può essere felice di tornare? Tutto è cambiato rispetto al ricordo consolidato del passato. Cosa rimane quindi? Solo i resti di una guerra che ha spazzato via persone e luoghi cari? Possibile che ci sia solo disperazione?
No, la risposta che Finci dà a noi lettori sta nella sua stessa vita. È possibile tornare, sì, ma non al passato: si può tornare alla vita e a una immotivata felicità. Tornare equivale ora a riconoscere che la patria “è il luogo dove tutto ti riguarda, l’unico dove ti senti, per quanto a lungo tu sia mancato, come se non fossi mai partito”.
E torna alla mente ciò che affermava Cesare Pavese in La Luna e i Falò: “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Ed è questo che significa tornare: riconoscersi di nuovo in quella città amata e in quelli che ancora la abitano, anche se tutto è cambiato. E sentire di nuovo quel canto malinconico, Adio Kerida, che nella fuga lo ha accompagnato. Sentirlo per tornare, perché tutto si ripresenta di nuovo ma con una consapevolezza nuova: la vita ritorna a essere purché la speranza non si sia arresa.