Nel 1975 le Brigate Rosse sequestrano Vittorio Vallarino Gancia, figlio ed erede della dinastia proprietaria dell’omonima casa vinicola. All’epoca Vittorio era amministratore e apparve agli occhi della colonna torinese del gruppo armato un ottimo bersaglio. Ma il sequestro durò poco più di un giorno: dei carabinieri arrivarono per un controllo casuale alla Cascina Spiotta ad Aqui Terme, dove Gancia era tenuto prigioniero da due brigatisti: Margherita Cagol, moglie di Renato Curcio e capo della sezione torinese delle Brigate Rosse, e un uomo, un giovane sui trent’anni, la cui identità è tutt’oggi sconosciuta. Lo scontro fra carabinieri e terroristi fu veloce e cruento e provocò la morte della stessa Cagol e dell’appuntato Giovanni D’alfonso (sui fatti esistono versioni contrastanti che vi invitiamo a scoprire, ndr). Il giovane sconosciuto riuscì invece a scappare e scomparire nei boschi intorno alla Cascina.
Ed è proprio lui il protagonista de Il caos, la bomba, il caos, edito nel 2018 da Bottega Errante Edizioni.
L’autore è Daniele Stroppolo cui va l’innegabile merito di avere scelto una vicenda spesso dimenticata della storia italiana più recente ma che segnò il cambio di marcia del terrorismo rosso che da quel momento divenne sempre più violento e vendicativo, come dimostrano i fatti successivi culminati tre anni più tardi con il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta.
Stroppolo approfitta di questo episodio e ci racconta che fine ha fatto l’Ignoto brigatista e con lui ci racconta un pezzo importante della nostra storia. Ripercorre con una precisione affilata tutti i soprusi che il potere ha operato contro le masse contadine e operaie, partendo dalla strage di Portella della Ginestra e ricordando anche le stragi minori, come Melissa (Calabria), Torremaggiore (Puglia), Montescaglioso (Basilicata). È un tuffo doloroso in fatti che hanno segnato il rapporto della classe dirigente italiana con le masse di lavoratori che rivendicavano diritti sacrosanti dopo la Liberazione. Molti partigiani finirono coinvolti in queste rivendicazioni e “ora erano a faccia riversa … falciati dai mitra italiani, come quando c’era lui”.
Se ci soffermassimo a questo probabilmente pensereste che è un romanzo storico ma in realtà Stroppolo usa i dati storici per effettuare un salto simbolico e metaforico che ci consegna una storia umana in cui l’asse centrale è la scelta.
Il nostro Ignoto si proclama un sopravvissuto che a distanza di anni ripercorre la sua storia dal momento in cui ha scagliato la bomba a mano contro i carabinieri. Lo troviamo solo, in una casa vuota, a ragionare su ciò che è stata la sua vita fino a quel momento. È una confessione ma non c’è pentimento e non c’è desiderio di essere perdonato. La sua vita è andata come doveva andare e siamo semplicemente alla resa dei conti.
Il suo racconto procede su due binari: da un lato il passato, lo studente universitario fuori sede che a Milano conosce ed entra nella lotta armata, il fallimento della Cascina Spiotta, la fuga e il lento ritorno alla vita, una vita diversa, sotto traccia. Dall’altro, il presente appena trascorso di questo uomo che per sopravvivere ha indossato la maschera del borghese: bravo marito, bravo padre, con una bella casa e un figlio, Andrea, sensibile e chiuso, educato in modo indipendente e libero.
Il padre si rispecchia nel figlio: non teme il suo legame con i circoli anarchici e i centri sociali, si riconosce nei suoi ragionamenti sociali e politici e in qualche modo è fiero di questo ragazzo. Fino a quando però subentra una mina vagante, inaspettata sotto tutti i punti di vista che scuote le certezze del nostro Ignoto e gli fa temere per l’incolumità di Andrea. Qualcosa non torna più e il caos che era riuscito a tenere sotto controllo dopo la bomba torna a divorarlo. D’altronde, verrebbe da dire che, come nella perfezione della tragedia greca, anche qui siamo di fronte alla voce del sangue: gli errori del padre ricadono sui figli e Andrea porta a compimento la parabola di suo padre, anche se in modo totalmente opposto.
L’incipit del romanzo è quindi l’inizio di una lucida e spietata analisi, condotta con un linguaggio forbito, a volte anche altisonante, che ricorda i vecchi proclami politici degli anni Settanta. E solo alla fine comprendiamo il tentativo disperato del nostro Ignoto di fare ordine nel caos, di non cadere in quella angosciosa alienazione che “ha trasformato gli uomini, i dignitosi essere umani, in finzioni. In ruoli”.
Ma il caos, la molteplicità del reale cola da tutte le parti, senza freno, senza pietà. Resta allora solo l’attesa, il trattenersi in un qualcosa (la vita?) che non cede.
E per noi lettori non rimane che lasciare il nostro Ignoto in quella casa vuota, chiuderci la porta alle spalle e lasciarlo ad aspettare l’inevitabile. In lui però riconosciamo la fine di un sogno: riappropriarsi della propria esistenza scegliendo da che parte stare. E consapevoli che scegliere significa anche perdere.