IL FUMETTO DEL MESE: DYLAN DOG COLOR FEST N° 16 – Tre passi nel delirio

È stata un’ardua impresa! Scegliere mensilmente il miglior fumetto da edicola rappresenta concretamente l’annosa incertezza della scelta, fra le decine di proposte di ottima fattura e qualità, con il conseguente complesso di dover tralasciare questa o quell’altra storia. Tuttavia, non si può fare a meno di azzardare un vincitore nell’ormai classico appuntamento – sulle pagine di Gufetto Mag – con il Fumetto del Mese: il risultato dei tormenti selettivi ricade stavolta sopra il Dylan Dog Color Fest, una testata collaterale alla serie mensile, intitolato Tre passi nel delirio in omaggio a quell’estroso film horror a episodi del 1968 diretto dai maestri Federico Fellini, Luis Malle e Roger Vadim.

Secondo alcuni appassionati di fumetti, gli anni ’90 hanno rappresentato il decennio perfetto, leggendario e irraggiungibile, per quanto riguarda la qualità delle storie di Dylan Dog. Un metro di misura inderogabile – secondo questi avvinti lettori – che non potrà mai essere replicato ciclicamente: per questo motivo, dopo il 1999 può ritornare soltanto il 1990. Stando a questo calendario, l’unico modo per apprezzare ogni nuova storia dovrebbe riportarci indietro almeno di vent’anni: Tiziano Sclavi scrive ancora a pieno regime, mentre il bollino del prezzo di copertina segna 2500 lire.

Un giudizio di questo tipo, volto a esplicitare spudoratamente una personale nostalgia indirizzata al passato, non tiene ovviamente in considerazione tutte quelle storie che – seppur in maniera differente rispetto al cosiddetto “periodo d’oro” del personaggio – sicuramente si contraddistinguono per la loro pregevole fattura. Tre passi nel delirio rientra perfettamente nella casistica. Basti pensare ai nomi coinvolti per la realizzazione di questo Color Fest: tre firme storiche del fumetto underground italiano che, in qualità di autori completi, hanno contribuito con la propria sensibilità a creare tre percorsi artistici differenti e diversi fra di loro.

Si comincia con Francesco Ciampi (noto con il nome Ausonia, autore di almeno un paio di capolavori come Interni e ABC) e la prima storia dai connotati apparentemente esoterici intitolata Sir Bone – Abiti su Misura. Si prosegue con Marco Galli (al secolo Kazzemberg, di cui si consiglia la lettura delle graphic novel Nero Petrolio e Oceania Boulevard) e il demone in sovrappeso nel secondo racconto Grick Grick. Si conclude con Gabriele Di Benedetto (conosciuto come Aka B, fumettista, pittore e videoartista di cui si rimanda ai bellissimi disegni di POP! Vite ascensoriali e Biblioteca Onirica) insieme alla sua personale interpretazione, nella terza e ultima storia, di una delle innumerevoli fobie di cui soffre Dylan Dog: Claustrophopia. Da non dimenticare il disegnatore scelto per la copertina, il bravissimo Arturo Lauria noto come Moloch.

Tre passi nel delirio rappresenta dunque un approccio d’autore che invece di scegliersi una strada, unica e rassicurante per il lettore, preferisce percorrerne varie e tutte assieme, finendo per dare un’impronta artistica e provocatoria che rimodella i canoni classici del personaggio creato da Tiziano Sclavi, senza tuttavia tradire la sua struttura fondante, ma anche le sue innumerevoli sfaccettature; contribuendo, anzi, a rilanciarne il mito – e la forza evocativa – con un approccio narrativo completamente differente rispetto alle normali uscite a cadenza mensile.

Sotto tale aspetto, nel proseguo di questo avvicendamento artistico, si potrebbe analizzare il pretesto esoterico utilizzato nella prima storia firmata da Ausonia, dove l’autore offre un divertissement sulla classica “divisa” di Dylan Dog composta da camicia rossa, giacca nera, jeans e scarpe Clarks. Gli indumenti, in questo caso, si trasformano in carne e pelle umana, quasi a voler iconizzare lo stile e l’estetica del personaggio; lanciando al contempo una frecciata ai lettori appartenenti alla “vecchia guardia” di cui si è parlato all’inizio di questo articolo: Dylan Dog deve sapersi rinnovare pur restando fedele alle proprie caratteristiche. Ma per riappropriarsi del suo ruolo di metafora e osservatore dell’orrore quotidiano, non può rimanere per sempre cristallizzato in un’epoca come quella – appunto – degli anni ‘90. Per quanto sia doloroso dover tradire le proprie nostalgie, il lettore dovrà per forza di cose accettare questo cambiamento di pelle. A rafforzare tale ipotesi concorre l’impianto dei disegni dove Ausonia, attraverso una patina di matita nera sulle tavole, conferisce un aspetto generale nello stile di alcuni film della belle époque. Senza trascurare i tratteggi del personaggio, nel vago dettame del pittore Egon Schiele, in una sorta di ipotetico rimando ad alcune vecchie interpretazioni grafiche di Angelo Stano, storico disegnatore e copertinista della testata.

La seconda vicenda, Grick Grick, firmata da Marco Galli segue invece una strada completamente differente, salvo poi rafforzare – in egual misura – l’iconizzazione del personaggio attraverso una visione artistica. Nello specifico, lo stile utilizzato mostra una sceneggiatura densa di primi piani e sequenze mute, insieme a un Dylan disegnato esplicitamente in maniera diversa rispetto ai canoni: magrissimo e con le fossette alle guance, a fare da contraltare all’altro personaggio della vicenda, un demone in sovrappeso stabilitosi a Craven Road, che turberà la convivenza fra il nostro protagonista e la sua nuova fidanzata. Gennie, questo il nome della controparte femminile, è una ragazza con atteggiamenti di pensiero aderenti al politically correct e – a detta dello stesso Dylan Dog – schierata dalla parte dei «deboli per aiutare gli oppressi». La presenza di Grick (l’onomatopea indica il costante digrignare dei denti di questa creatura) metterà in crisi i suoi fondamenti. Ed è proprio in questo bizzarro trittico, che si potrebbe inserire quel discorso sui lettori insoddisfatti dal nuovo corso editoriale: emblematica, sotto questo punto di vista, la presenza di uno smartphone usato da Gennie per scattare alcuni selfie con il demone obeso. Non a caso, infatti, lo smartphone è quell’oggetto che i lettori “talebani” non hanno mai accettato all’interno della recente svolta editoriale: come se Dylan Dog avesse abbandonato il suo di atteggiamento politically correct, cedendo al “demone” della tecnologia moderna. Gli stessi lettori che perciò incarnano le contraddizioni di Genny, utilizzando un cellulare di ultima generazione nelle loro vite quotidiane, salvo poi attaccare un personaggio che – nelle loro nostalgie – dovrebbe restare fedele a se stesso rasentando il paradossale: un fumetto ambientato nel 2016, con il protagonista che compie le inchieste investigative dentro una vecchia biblioteca polverosa, piuttosto che utilizzare magari un motore di ricerca come Google.

Terza e ultima storia, Claustrophobia, a chiudere l’ipotetico cerchio di provocazione artistica. Il tema, come indicato dal titolo, racconta – tra le innumerevoli “debolezze” dell’Indagatore dell’Incubo – l’irrazionale fobia degli spazi stretti. Decisamente spettacolare, nella gestione grafica delle tavole, il tratto utilizzato da Aka B volto ad esasperare la condizione e il senso di ansia del protagonista rinchiuso in fondo a un pozzo; grazie anche al dosaggio di alcune inquadrature dal basso nell’impianto di una sceneggiatura decisamente efficace sotto il profilo dei piani. Anche in questo caso, ovviamente, quest’ultimo racconto concorre in quel processo di mitizzazione del personaggio, offrendo al tempo stesso una chiave di lettura provocatoria. L’esempio più lampante è sicuramente rappresentato dalla splah page riempita con i nomi delle fidanzate storiche di Dylan Dog, dove quest’ultimo – impossibilitato a uscire da una situazione di stallo – si ritrova a meditare sulla propria condizione. Continua, a volerlo forzare, il gioco fra le righe relativo ai lettori nostalgici bloccati in quel periodo – gli anni ’90 – non più riproponibile nelle nuove avventure del personaggio: «Solo attesa. Sempre nello stesso punto. Immobile. In assenza di tutto. Ho letto che si può vivere sette giorni senza cibo – afferma Dylan Dog – e neanche uno senza storie. Abbiamo bisogno di racconti per vivere».

Apostrofando le parole della scrittrice statunitense Joan Didion, ci raccontiamo delle storie per vivere, restituendo all’autoinganno una sua dimensione profondamente umana. Forse, molto più semplicemente, le storie che ci raccontiamo sono le storie che definiscono le potenzialità della nostra esistenza. I tre passi nel delirio, anzi nel mito di Dylan Dog, sono perfettamente riusciti.

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