Un ottimo esordio, quello di Gabriele Di Fronzo, con il breve romanzo pubblicato da Nottetempo, Il grande Animale. Un’opera sulla perdita e sull’esercizio di sopravvivenza che ne deve seguire; una storia claustrofobica e ossessiva, poetica, ricca di dettagli finemente cesellati.
Fin dalle prime battute non si può non pensare al Matteo Garrone de L’imbalsamatore: il protagonista del Grande animale è un tassidermista; è il suo mestiere a dare forma e senso al rapporto con il padre, e infine alla sua scomparsa. Soprattutto, però, non si può sfuggire al naturale confronto con il film successivo del regista romano, Primo amore. Laddove il lavoro artigianale dell’orafo definisce e ridefinisce il metallo badando che non un milligrammo vada perduto, e analogamente l’anoressico tende allo scavo e alla sottrazione in vista di una purezza irraggiungibile, il rituale dell’imbalsamatore ha quale ultimo scopo non il controllo totale sulla vita ma il forgiare un corpo, procedendo per asportazione e sostituzione, che simuli la vita oltre la morte: «la recita del vivo e la figura del lutto».
Di Fronzo si rivela abilissimo nel confezionare un romanzo nel quale si muovono due soli laconici protagonisti e pochi altri personaggi intermittenti, all’interno di uno spazio esiguo, totalmente sbilanciato verso un descrittivismo che, lungi dall’annoiare o dal rendere superficiale il racconto, ne forma lo scheletro: robusto e tetro.
Come pochi altri nel panorama letterario italiano contemporaneo, il trentunenne autore toinese ha trattato con sensibilità un rapporto tra padre e figlio travagliato dalla violenza che ha segnato l'infanzia di quest'ultimo, Francesco Colloneve, affondando nella profondità del ricordo e riportando in superficie nient’altro che il ricordo stesso, senza concedersi mai al retorico ma ricorrendo a un elemento narrativo pieno di pathos. In definitiva, Il grande animale non ci racconta altro che la rielaborazione di un lutto, attraverso quella che è stata definita la “liturgia del vuoto”: «Il contrario di pieno è vuoto, ma vuoto è anche il contrario di tutto il resto, vuoto a parte, il vuoto è il medicamento che si può contrapporre a ogni altra cosa che non sia se stesso, questa la regola cui attenersi, comàndati ora il dettaglio, ora che hai imbastito il vuoto, tutto attorno è limatura minutissima di ferro che la tua mano destra richiama a sé come un magnete, adesso non hai neppure spazio intorno per fare movimenti, scordati la facilità che hai avuto all’inizio, il vuoto esiste, inizia a vedersi, e c’è da non rinunciare a niente per realizzarlo del tutto.»
Tra i meriti del libro, c’è senz’altro da sottolineare la forte tenuta stilistica e narrativa dell’intreccio: nello scorrere delle brevissime parti che scandiscono il racconto, la fitta maglia di parole, periodi, immagini restituiscono al lettore due figure consumate ciascuna dal proprio dolore. La prosa, per quanto possa definirsi scarna, affilata, essenziale, contiene un lirismo dolente ed evocativo e l’autore impiega – sapendone dosare gli ingredienti – un linguaggio originale, ricco di un lessico ricercato che a tratti suona quasi arcaico e che più di ogni altro elemento dona poeticità alle pagine: «programmo i prossimi lavori mentre chiudo gli occhi sotto la minuscola porzione di cielo corrusco diffratto da nuvole che illumina la sua camera da letto.»
Il grande animale è un romanzo che cattura con la sua atmosfera cupa e – al protrarsi delle descrizioni dettagliate e numerose del lungo e feroce processo di ablazione del primo "grande animale" del tassidermista – quasi ipnotizza, lasciandoci con la certezza che il vuoto esiste, e con il dubbio che esso, in realtà, occupi gran parte di alcune vite segretamente segnate da rapporti terribili.