Obliquo è il tratto che meglio descrive le scelte della casa editrice bolognese che da qualche settimana (novembre 2015) ha pubblicato il breve e singolare romanzo del regista e drammaturgo Francesco Randazzo, Tu non lo sai da dove vengo. Meridiano Zero ha fatto dell’ambiguità, dell’oscurità, dell’inconsueto e della forza dissacrante che della realtà scova le ombre, i propri punti di forza.
Non stupisce, quindi, che il libro di Randazzo – dalla bellissima veste grafica in bianco e nero – offra anch’esso una visione per certi versi distorta, sicuramente inedita e cruda della realtà sociale e psicologica narrata nella non-storia di Tu non lo sai da dove vengo. Realtà sociale non solo siciliana e più segnatamente catanese – in cui non vi è traccia dei soliti stereotipi da cartolina, fatta forse eccezione per le poche pagine dedicate a una sorta di “canto dell’arancino” – ma anche italiana, laddove la cultura cialtrona, l’ingiustizia, l’ansia vitalistica che “distrae dal pensiero della morte e del giudizio”, “il gusto palazzinaro del lusso e dell’ostentazione d’opulenza e sviluppo democristiano” si sanno privi di confini interni.
In breve, un uomo sulla trentina viene bloccato, mentre si trova a bordo della sua Renault Clio, da un barbone. Un uomo magrissimo, sporco e maleodorante di urina che chiede di essere accompagnato a casa: via Canfora, 91. Inspiegabilmente, o perché in modo del tutto inconscio il vecchio rimanda a un’atavica figura paterna, l’uomo accetta la richiesta di aiuto, proiettandosi in un inconcludente e nervoso viaggio attraverso le strade di Catania. Un viaggio della durata di un giorno, nella quale un lavoratore precario e un anziano disagiato sociale condividono lo strettissimo spazio dell’abitacolo o le ampie vedute che si aprono ai loro occhi durante le soste. Chi è questo vecchio, delirante, “vinto e umiliato”, che cita a memoria Omero e i Pink Floyd? un profeta, un fustigatore di anime perse, memoria del passato e monito per il futuro?
Il giovane, sempre più ammaliato dalla forza di spirito e dalla debolezza umanissima dell’anziano, percorre Catania sfogando la rabbia repressa, ripensando alla propria vita, lasciandosi trasportare dall’insensatezza del viaggio stesso che, attraverso la tangenziale, palazzi come dune di sabbia, strade morte, ingorghi, aiuole disseccate, lo stadio e un cimitero, e infine l’Etna, scopre una città metafora di quanto la civiltà contemporanea va disperatamente fuggendo (o dovrebbe rifuggire) nella quale il nero della pietra lavica, del catrame, dell’ombra del vulcano e del respiro abissale del mare è “una sorgente di ruvido impasto che avvolge tutte le cose, persino l’aria”.
Ben si addice al contenuto visionario del romanzo lo stile narrativo in cui il gergo da strada, colmo di improperi e oscenità, si amalgama perfettamente con un lessico vario e germogliante, in un periodare che non si riduce alla solita paratassi, in una prosa ricca di citazioni letterarie e pop, di rimandi a eventi storici e di una critica caustica della società italiana contemporanea. Forse sarebbe stato opportuno spuntare qualche eccesso di pathos, qui e lì, ma rimane un peccato che si può perdonare.