La nostra Susanna Pietrosanti intervista Arianna Frattali: una chiacchierata piacevole e ricca di spunti, per ampliare e approfondire la recensione di Santo Genet da Genet, lavoro che analizza compiutamente il processo creativo e spettacolare della Compagnia della Fortezza.
S.P: Innanzitutto, e per inquadrare l’argomento, quali sono state le motivazioni, o meglio, le circostanze dell’innamoramento per la Compagnia della Fortezza, fra le molte del panorama teatrale contemporaneo?
A. F.: Ho conosciuto la Compagnia della Fortezza al Teatro Fabbricone di Prato, partecipando come spettatrice alla messa in scena di Hamlice – Saggio sulla fine di una civiltà, nel 2010, e sono rimasta subito colpita dall’impatto visivo di questo allestimento e dalla sua forza espressiva, trovandomi immediatamente coinvolta in un’esperienza che potevo già allora definire immersiva, dato il livello di partecipazione a cui era chiamato il pubblico. Per questo, ho scelto lo spettacolo in questione come oggetto di analisi di un mio lavoro presentato nel contesto del convegno, tenutosi l’anno successivo in Università Cattolica a Milano, e intitolato il Teatro verso la performance. Da lì ho iniziato a seguire Punzo e i suoi attori-detenuti all’interno del Festival VolterraTeatro ed in seguito anche in alcuni allestimenti in teatri tradizionali, con scena frontale. Sono iniziati così gli scambi, le visite in carcere, le frequentazioni che mi hanno portato a dedicare un intero progetto di ricerca presso l’Università di Salerno ai loro lavori post-2010, progetto che mi ha spinto a collocare il loro lavoro nella prospettiva più ampia del teatro performativo europeo contemporaneo.
S. P: E fra le molte opere, e i molti capolavori, che compongono il carnet del gruppo, quali suggestioni hann determinato la virata verso Santo Genet, piuttosto che, magari, rimanere sugli ultimi spettacoli, quali Hybris, Beatitudo e Naturae?
A.F.: Penso che il ciclo di rappresentazioni legate all’opera e alla figura controversa del drammaturgo francese nel 2013 con lo studio preparatorio e nel 2014 in forma definitiva (dopo un primo lavoro di avvicinamento a I Negri, nel 1996) rappresenti un decisivo turning point nell’elaborazione del linguaggio scenico di Armando Punzo con i suoi detenuti-attori, inserendone il lavoro costante sullo spazio scenico e corporeità reclusa nel panorama più ampio del teatro-postdrammatico, per usare la famosa definizione coniata da Hans-Thies Lehmann. Questo accade perché Jean Genet rappresenta egli stesso un drammaturgo post-drammatico ante litteram, che enuclea nella propria scrittura drammaturgica i segni dei tempi a venire, stabilendo un nesso fra tendenza al cerimoniale (il teatro inteso come rito) e rinunciando alla concezione di un soggetto da raccontare in forma drammatica.
S.P. : Se tu dovessi giocare alla sintesi, e definire in breve la specificità e l’unicità del lavoro di Armando Punzo e del suo rapporto coi testi/reagenti, che sintesi sceglieresti?
A.F.: Quello della Compagnia della Fortezza si può definire un “teatro con i testi”, nel senso che la parola è il terreno su cui s’innesta l’immagine, il motore dell’azione, ma è la natura umana a produrre la scrittura, poiché il testo (possono essere anche più testi, anche di altra natura) drammatico di riferimento viene sistematicamente scardinato, frammentato, rielaborato, combinato, messo in bocca a personaggi diversi.
S.P. Una scrittura collettiva…
A.F.: Una scrittura collettiva, che si articola in tre fasi: scelta dei temi, scrittura a più mani, stesura finale; il lavoro parte dai detenuti, dalla necessità di contattare la propria biografia e di metterla in relazione con il mondo in cui essa è calata; il teatro diventa così urgenza, vera e propria necessità, in quanto unica possibilità di libertà e di diversa rappresentazione di sé.
S.P.: Di sé, e non del personaggio…
A.F.: No. Uscire dal personaggio è una condizione che accomuna attori e spettatori, in un’esperienza che deve essere trasformativa per entrambi; il corpo per gli attori-detenuti diviene centrale, non come portatore di significato, ma per la sua fisicità e gestualità che suscitano nello spettatore sentimenti come fascinazione immorale, disagio e persino paura.