È certamente un’impresa non facile trasformare, emozionando un pubblico anche giovane, un testo complesso come ‘Uomini e no’ – romanzo scritto nel 1944 da Elio Vittorini (Siracusa 1908-Milano 1966), uno dei maggiori autori italiani del Novecento – in uno spettacolo teatrale a oltre 70 anni dagli eventi e sentimenti narrati sui quali è caduto ormai l’oblio non tanto della Storia quanto degli uomini.
Impresa riuscita a Carmelo Rifici – regista – e a Michele Santeramo – autore della drammaturgia – che hanno realizzato uno spettacolo (in scena al Piccolo Teatro Melato di Milano fino al 19 novembre 2017) che coinvolge anche quel pubblico che di quel tragico periodo ha forse perso persino i racconti degli anziani che in un modo o nell’altro ne erano stati protagonisti e lo avevano subito.
L’attualizzazione intelligentemente effettuata da Rifici e Santeramo non ha stravolto il testo di Vittorini, ma ne ha portato in primo piano gli aspetti personali e i valori non transeunti che lo scrittore aveva inserito e che negli scorsi decenni erano stati ‘schiacciati’ dalla narrazione della lotta partigiana più emozionalmente vicina al lettore se non altro per l’aspetto tempo.
Vittorini scrive in clandestinità Uomini e no tra la primavera e l’autunno del 1944, nel pieno della lotta al nazifascismo cui partecipa attivamente nell’ambito dei GAP che operano a Milano: gli eventi e gli orrori narrati sono quindi avvenuti realmente. Uomini e no (pubblicato da Bompiani il 21 giugno 1945) è, quindi, il primo romanzo che racconta questa nobile pagina della nostra storia.
Libro non facile (per esempio si conosce una sola riduzione cinematografica diretta nel 1980 da Valentino Orsini e nessuna messa in scena teatrale prima di questa) anche alla lettura, specie in un’epoca in cui si è più portati alla rapidità dei messaggi che alla meditazione: si sviluppa, infatti, su due linee parallele ed egualmente importanti: la cronaca degli eventi e la riflessione sull’animo umano e sui sentimenti. Lo scrittore stesso ha evidenziato i due aspetti sottolineando il secondo: ha scritto in carattere diverso (corsivo) i 23 (su 136) capitoli in cui immagina di dialogare con il protagonista (che in certa misura lo rappresenta) quasi discutesse di fronte a uno specchio su quanto sta vivendo, sottolineando una lettura psicologica e meno transeunte della cronaca.
Il titolo stesso si presta a diverse interpretazioni. Tralasciando la più immediata e semplice (‘uomini’ i partigiani o comunque gli antifascisti, ‘no’ i nazifascisti) l’animus dell’opera sintetizzato dal titolo è nei capitoli scritti in corsivo: gli ‘uomini’ sono quelli che in qualsiasi situazione, anche la più estrema non perdono mai la propria umanità: il giovane operaio appena entrato nella Resistenza non riesce a uccidere il soldato nazista perché nel suo sguardo riconosce un giovane lavoratore come lui, il protagonista antepone il poter vivere una vita felice alle necessità della lotta.
La perdurante importanza della dimensione personale e della ricerca della felicità anche propria è un tema ricorrente nella letteratura ispirata alla Resistenza (indimenticabile per esempio la figura di Milton de Una questione privata, lo straordinario romanzo di Beppe Fenoglio, da cui recentemente i fratelli Taviani hanno tratto un bel film) quasi a indicare la differenza con i militari regolari.
Il diritto alla felicità è la chiave interpretativa data da Rifici e Santeramo all’opera di Vittorini, diritto che coincide (ma va anche oltre) con quello alla libertà e con il desiderio di costruire una nuova società più giusta e inclusiva rispetto a quella che aveva generato il fascismo. Ed è la chiave interpretativa che rende Uomini e no attuale per giovani nati e cresciuti nella libertà e in una stagione in cui diritti ed eguaglianza (anche se con crepe crescenti) paiono naturali come l’aria che si respira.
È la chiave che ha fatto vivere ai giovani interpreti (tutti attori professionisti formatisi alla scuola del Piccolo diretta prima da Ronconi e ora da Rifici) i loro personaggi che altrimenti – specialmente in alcuni casi (si pensi a Gracco e Lorena, simboli rispettivamente della trascendenza di una fede politica e della assuefazione del proletariato alla lotta e al sacrificio) – sarebbero stati lontanissimi dalla realtà odierna.
Splendida l’intuizione di Paolo di Benedetto d’inserire nella già coinvolgente ellisse del Melato uno dei classici tram protagonisti di oltre mezzo secolo di storia dei trasporti milanesi diviso in due longitudinalmente a indicare la frattura che attraversava tutta a città tra fascisti/nazisti e antifascisti, tra chi subiva di vendersi all’occupante e chi aveva il coraggio di opporsi, tra chi in un discorso che va oltre gli anni della guerra nasconde la testa sotto la sabbia e chi lotta per la giustizia e la libertà in modo razionale e non donchisciottesco.
E il tram scorrendo sul binario con a bordo i protagonisti che di volta in volta lo occupano fa rivivere – attraverso i luoghi in cui sono realmente accaduti gli eventi narrati – la Milano del 1943 e la sua atmosfera resa anche dalle biciclette come altro mezzo di locomozione e da un’accurata ricostruzione degli abiti.
Rifici ha saputo far percepire al pubblico, anche a chi non conosce il romanzo, la dicotomia interna al gruppo partigiano tra chi lottava guidato da una fede politica e chi come Enne2 (il protagonista) è guidato solo dal desiderio di libertà che trascende il contingente storico per divenire lotta a 360° a ogni tipo di fascismo, non solo quello politico ma anche quello che in misura maggiore o minore è dentro ogni uomo e riguarda per esempio il modo di porsi in famiglia, i rapporti tra uomo e donna o quelli sul luogo di lavoro, il dividere gli esseri umani in gruppi (fascisti e antifascisti, bianchi e neri…) gli uni con tutti i diritti, gli altri senza.
E in un lavoro da vedere e meditare una riflessione particolare va fatta sulla figura di Berta personaggio centrale nella tematica del ‘diritto alla felicità’: è giusto in nome dell’opportunità e delle convenienze sociali privare di tale diritto se stessa e gli altri?