Sono 4, come ogni anno, i finalisti del Roma Fringe Festival 2015 che torneranno in scena il prossimo 5 luglio per la votazione finale che sancirà il vincitore della rassegna.
In attesa della serata conclusiva, ripercorriamo brevemente le tematiche dei 4 spettacoli vincitori, tracciando un giudizio anche attraverso le recensioni prodotte in questo mese di programmazione: ogni finalista rappresenta a suo modo gli argomenti e le suggestioni di fondo di gran parte degli spettacoli della Rassegna recensiti da Gufetto, ovvero la Guerra, la tensione sperimentale e di contestazione sociale e la Danza come veicolo artistico di un messaggio spesso astratto e visionario.
GLI EBREI SONO MATTI
Lo spettacolo “GLI EBREI SONO MATTI” è ideato, diretto e interpretato da Dario Aggioli del teatro Forsennato ed è ispirato alla storia (reale) del dottor Carlo Angela (padre del famoso Piero Angela) che, durante l’occupazione nazista, diresse una clinica psichiatrica a San Maurizio Canavese e offrì rifugio a numerosi antifascisti ed ebrei, falsificando le cartelle cliniche per giustificarne il ricovero.
Sul palco Dario Aggioli interpreta il matto Enrico giovane fascista romano e Guglielmo Favilla interpreta Ferruccio, un giovane neo-laureato ebreo di origine toscana, che tenta di salvarsi dalle leggi razziali. I due giovani, così diversi si trovano a condividere lo stesso spazio e Ferruccio cercherà d’imparare ad essere un matto vero osservando Enrico e riuscendo così a salvarsi la vita.
“GLI EBREI SONO MATTI” scorre via veloce, facendoci spesso ridere sonoramente, sorridere amaramente, disgustandoci talvolta, lasciandoci pieni di domande e spunti di riflessione e regalandoci un pezzettino della nostra storia passata che non dovremmo dimenticare mai” ricorda F. Calisti nella sua recensione.
Secondo chi vi scrive (Antonio Mazzuca) lo spettacolo si caratterizza per una certa complessità recitativa, che mette alla prova entrambi gli attori. Una prova vinta da Favilla, spiritoso ma anche credibile e in bilico fra disperazione e ironia. Aggioli, impegnato in un ruolo dalle sfumature complesse, in bilico fra il tono bambinesco e quello goliardico, spesso carica troppo il suo personaggio fino a tramutarlo in qualcosa di diverso, non riconoscibile, che non ci ha (ancora) convinto del tutto. La drammaturgia è sicuramente interessante e non scontata, ma l’aspetto recitativo predomina sulla tenuta del testo e rischia di diluirne la portata, concentrando l’attenzione dello spettatore più sulla performance in sé e sugli spunti spritosi, che sul messaggio dello spettacolo nel suo insieme.
GUERRIERE
Un intenso monologo drammatico dell’attrice regista Giorgia Mazzucato sulle donne protagoniste attive della Prima Guerra Mondiale che riprende i documenti veri della Grande Guerra: questo è GUERRIERE-TRE DONNE NELLA GRANDE GUERRA.
Secondo Riva Evstifeeva “Ne deriva, però, un insieme del tutto personale, che oscilla sapientemente tra il tragico e il comico, ma un tragico mozzafiato e un comico strabiliante che tengono lo spettatore costantemente sospeso tra le lacrime e un ridere sfrenato”.
E sempre sullo spettacolo G. Flammini sottolinea che “Il tutto viene accompagnato dalla musica di Veronica Giuffrè (violino), Mario Di Marco (clarinetto), Dario Giuffrida (melodica) che regalano allo spettacolo un tocco in più, ben strutturata la scenografia che riempie per intero il palco rappresentando in maniera dettagliata i luoghi vissuti dalle tre donne come la trincea, la hall dell’albergo, un caminetto e il letto di un ospedale dove si svolge la scena finale in cui tutte convinzioni e il patriottismo gratuito di Angela vengono meno …”
Secondo chi vi scrive (Antonio Mazzuca) come già sottolineato nella serata della semifinale, “Ne emerge un quadro storico interessante, uno sforzo di restituzione di un universo femminile in crescita che vedrà nella Donna una figura in lotta con la Grande Guerra della Vita. L’attrice è convincente soprattutto nei panni della soldatessa, un personaggio affascinante che fa luce su un mondo maschile (quello della trincea) ironicamente reso nella sua portata ampiamente sessista“
FAK FEK FIK
Lo spettacolo è frutto di un lavoro di studio sul drammaturgo austriaco Werner Schwab, ad opera di Dante Antonelli, che parte dal finale de “Le Presidentesse” per dare vita a qualcosa di nuovo. Come già anticipato da Rosella Matassa al momento della messa in scena al Teatro Sala Uno, lo spettacolo “si esplica tutto nella totalità del parlato, nell'urgenza di tirar fuori esistenze, emozioni, fastidi”.
Secondo chi vi scrive (Antonio Mazzuca) lo spettacolo è caratterizzato da una potenza verbale ed espressiva fra le migliori viste finora: la voce e il corpo delle attrici viene funzionalmente indirizzata all'espressione della denuncia della umana bassezza in un crescendo di emozioni roboanti.
FAK FEK FIK è un manifesto di umanità desolata, un quadro sprezzante e provocatorio, in linea con le intenzioni del padre (putativo) Schwab.
Da sottolineare il lavoro di regia, egregio nella gestione delle tre interpreti sul palco le quali sono in grado ognuna di rappresentare una propria storia sfruttando un proprio linguaggio, un proprio codice, una propria mimica che però non risulta affatto slegata da quella delle altre, ma si compenetra invece, in un tutt'uno esemplare e allo stesso tempo crudele. Le linee disegnate dai corpi, dai loro movimenti, le loro direzioni catalizzano la scena, la riempiono. Pochi gli arredi scenici, comunque ben sfruttati.
La sensazione è quella di assistere ad una fulminante rivelazione sulle ipocrisie del nostro tempo. Si tratta di uno spettacolo che, per sua struttura è frammentato e lapidario e che si alimenta, ad ogni esibizione, di nuova linfa vitale per le proprie aperte dissacrazioni.
Uno spettacolo a nostro avviso, fra i più sorprendenti del cartellone, che costringe lo spettatore a riconoscere lo svilimento davanti a certi comportamenti umani, a certe sovrastrutture mentali, religiose, psicologiche e sociali. Uno spettacolo che ci rende consapevoli delle nostre “vergogne” esposte al mondo: non solo le "vergogne" del corpo, ma anche quelle dell’animo.
LES AIMANTS
Lo spettacolo messo in scena da Sara Mangano e Pierre-Yves Massip, direttamente dalla scuola di Marcel Marceau fonde danza, mimo e circo e, come affermato da Edoardo Fedeli: “I due attori creano uno spettacolo dinamico in cui il movimento la fa da padrone, nel quale l'assenza di parole non vuol dire affatto assenza di comunicazione: i personaggi, legati da una liaison sentimentale, sperimentano sul palco, tramite il loro corpo, i momenti felici e tristi che sono inevitabili da provare in coppia; la riflessione sull'amore che la pièce vuole dare è ispirata alla poetica di Jacques Prévert”.
A parere di chi scrive (Antonio Mazzuca), lo spettacolo è un misto di sensualità giocosa e poetica.
Sfruttando le suggestioni del mimo e della danza, si costruisce una storia d’amore universale, fatta di incontri e respingimenti, di avvicinamenti e allontanamenti estremamente allegorici. Lo spettacolo pecca forse nella lunghezza e nella ripetitività di alcuni movimenti, malascia incantati in diversi passaggi (su tutti quello dell’arancia sul tavolo ispirata alla poesia “Alicante” di Prévert) e si caratterizza per l’accurato studio dei passi e dei movimenti, confusi sapientemente in una danza di due calamite umane i cui poli d’attrazione sembrano destinati a ritrovarsi in una sublime sintesi d’amore.