PRESTO SAPRÒ CHI SONO @TEATRO BELLINI: Appunti d’autore su letteratura e conoscenza di sé

Il noto scrittore, conduttore radiofonico e direttore del Salone internazionale del libro di Torino Nicola Lagioia porge il suo personale omaggio alla letteratura e in poco più di un’ora rapisce e incanta il pubblico del Teatro Bellini di Napoli.

Antefatto

Stasera in città si gioca la partita degli ottavi di finale di Champions League. I tifosi della Eintracht Francoforte hanno messo a ferro e fuoco le vie del centro, sfogando un incomprensibile odio vandalico contro negozi e infrastrutture urbane. Napoli è presidiata da camion della polizia: l’asfalto delle strade, dopo gli episodi di guerriglia avvenuti nel pomeriggio tra le due tifoserie avversarie, è ricoperto da un manto di vetri rotti.

La vittoria schiacciante riportata dagli azzurri a fine serata deve fare i conti con l’amarezza e l’indignazione: la passione per lo sport, ancora una volta, è stata “glorificata” a colpi d’inciviltà.

Andare a teatro in una giornata come questa diventa quasi un atto di resistenza civile: la platea del Bellini sembra accogliere degli scampati a un pericolo; atipici in controtendenza che partecipano a tutt’altro rito sociale, antico e terapeutico, mentre fuori imperversa una funesta contemporaneità. Per una volta cedo alla più banale delle semplificazioni e con un moto di orgoglio, a pochi istanti dal fischio d’inizio della mia partita del cuore, considero che il calcio divide, là dove il teatro – invece – unisce.

Nicola Lagioia_Foto
Nicola Lagioia_Foto

Elogio della letteratura: PRESTO SAPRÒ CHI SONO

Appena salito sul palco, Lagioia ci ringrazia per essere arrivati lì nonostante gli odierni tafferugli e relativi pericoli.

Non userà mai lo sgabello e il leggio posti al centro della scena vuota ma, consultando di tanto in tanto degli appunti, in poco più di un’ora la riempirà d’immagini e significati altissimi. La lettura di alcuni brani da opere scelte segue un coinvolgente contrappunto di citazioni da vari autori e il filo rosso di digressioni e riflessioni semplici ma illuminanti.

Lasciarsi naufragare in questo mare di conoscenza è una dolce ricompensa alle fatiche e ai rischi del mio solitario viaggio dalla periferia alla città.

Il magico incontro tra mente e mente, spirito e spirito

Si può amare la letteratura soltanto in un modo: frequentandola.

La bellezza e la particolarità di quest’umana attività si esprimono nel progressivo e magico incontro fra mente e mente, spirito e spirito. Si tratta di un vero e proprio processo di avvicinamento: ci si accosta ai libri come alle persone e poi s’impara a conoscerli sempre meglio.

È un’esperienza fondativa che nessun residuato tecnologico dotato di chip all’ultima moda potrà mai sostituire o eguagliare. Ma non dobbiamo confonderci sulla sua vera natura. La letteratura è, ontologicamente, il contrario della comunicazione: non ha scopi accessori, non persegue fini specifici.

La poesia Veglia di Giuseppe Ungaretti inaugura la dissertazione di Lagioia:

Un’intera nottata

Buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

L’analisi e parafrasi dei versi dedicati all’amico commilitone morto in battaglia sono il pretesto per elogiare la potenza del linguaggio, capace di suscitare nell’animo del lettore un’adesione immediata alla mente del poeta: noi siamo, diventiamo la parte della mente di Ungaretti che presiede a quel tipo di linguaggio e dà forma a ciò che prima non ne aveva.

Quella che ci viene trasmessa non è un’informazione bensì un’emozione: è molto più complicato realizzare questo prodigio. Come ci si può riuscire? Come si fa a costruire la poesia?

Il nostro colto oratore non ha dubbi: la letteratura ha bisogno di cose concrete; è antiplatonica e delle idee non sa che farsene; se scrive di città, non le importa delle città in generale ma sempre della tale o talaltra città; se parla dell’invidia, parla dell’invidia di quel particolare personaggio.

Il saper risultare materica consente alla letteratura di elevarsi spiritualmente.

Un grande scrittore è sempre un incantatore

Brodskij si dichiarava fieramente poeta e considerava la poesia non una branca dell’arte tra le tante ma qualcosa di più: l’operazione linguistica suprema. Sosteneva che fosse addirittura un crimine antropologico leggerla soltanto per passare il tempo. Nabokov raccontava invece una storiella umoristica sulla nascita della letteratura, avvenuta quando un ragazzino scappò gridando al lupo al lupo e tutti gli credettero anche se il lupo non c’era. Faulkner, dal canto suo, notava che spesso la letteratura è un tradimento delle storie del Vecchio e Nuovo Testamento.

La natura è la prima ingannatrice e ci fornisce miriadi di esempi della sua capacità mimetica e affabulatrice, come gli insetti che mutano il colore per difendersi da potenziali aggressori.

Anche la letteratura cerca di esprimere una verità attraverso la menzogna, al contrario di quanto fa la politica.

Un grande scrittore, diceva ancora Nabokov, è un incantatore: ma come si fa a fingere qualcosa che non si sta provando? Come fa uno scrittore a costruire sulla pagina bianca un intero microcosmo di vissuti legato alla specifica, complessa identità dei personaggi, risultando credibile e seducendo lo sguardo dell’Altro a una lettura immersiva?

La letteratura come arte sciamanica 

Tornando alla metafora adoperata da Nabokov per spiegare la genesi dell’arte di raccontare storie, bisogna considerare che – per rendersi credibile e seminare il panico attorno a sé – il ragazzino che grida “al lupo, al lupo”,  modello archetipico di narratore ante-litteram, deve conoscere esattamente i comportamenti dell’animale, personaggio centrale – diremmo oggi – della sua trama: come si muove nel suo habitat, quando e come digrigna i denti, perché azzanna e ferisce, quali sono le sue fattezze e movenze; e via discorrendo.

Più importante ancora dell’elemento descrittivo risulta però essere l’elemento emotivo: la cosa più difficile per uno scrittore è riprodurre gli stati emotivi dei suoi personaggi; per compiere quest’artificio la tecnica è certamente importante ma bisogna essere soprattutto dei bravi sciamani, dei medium in grado di evocare e suscitare nel lettore gli stessi sentimenti che in quel momento non si stanno realmente provando.

Madame Bovary c’est moi: la verità della finzione letteraria

Il poeta è un fingitore: è l’elegante definizione con cui Pessoa, sublime inventore di eteronimi, chiarisce il nesso.

Hemingway, al contrario, difendeva la tesi in virtù della quale si dovesse scrivere soltanto di vissuti realmente esperiti: non è un caso che attingesse costantemente alla memoria delle proprie peripezie di soldato in guerra per comporre i suoi romanzi. Il critico letterario Walter Siti corregge il tiro, formulando una teoria più sofisticata: uno scrittore ha certamente il diritto d’inventare, ma solo se ne è davvero capace. Se vuole misurarsi con la storia di un assassino o di uno stupido, e non è un assassino o uno stupido, dev’essere capace di scandagliare gli abissi della propria natura di uomo e, dando fondo a tutte le sue risorse psichiche e psicologiche, figurarsi e rappresentare con la dovizia dei particolari più scabrosi e veritieri le azioni e reazioni di quella specifica personalità, per farla vibrare sulla pagina e nella mente del lettore.

Bisogna dunque sviluppare un’empatia prodigiosa e convertirla in una prassi maieutica, simile all’esoterico lavoro che un attore dispiega sulla scena quando rivive – in carne e ossa, azioni ed emozioni – il dramma del suo personaggio.

Non è un caso che quel genio di Flaubert, a proposito del suo capolavoro, con coraggio avesse dichiarato Madame Bovary c’est moi: un’affermazione che racchiude la verità letteraria, fondamentale e imprescindibile, che ogni scrittore incarna e custodisce.

Il cuore di tenebra della letteratura

L’ampia panoramica delineata da Lagioia prosegue con il riferimento a un altro capolavoro che da sempre viene letto e studiato a scuola: I promessi sposi del Manzoni. Il focus riguarda una tra le scene più “cinematografiche” contenute nel romanzo, in cui la semplice passeggiata mattutina del curato Don Abbondio, folgorato lungo il cammino dal temibile incontro con i due bravi, viene trasformata in un’avventura emotiva e dello spirito, che emerge grazie ad una scrittura straordinariamente performativa e ologrammatica.

Gli scrittori devono possedere una capacità demoniaca: riuscire, psico-magicamente, a identificarsi con tutti i personaggi, anche quelli più abietti.

Il nemico numero uno della letteratura è la purezza. Non di parabole edificanti pulsa il suo cuore di tenebra; essa frequenta compagnie e vicende tanto più interessanti e coinvolgenti quanto problematiche, di difficile se non impossibile risoluzione. Del resto, chi non ha preferito l’Inferno al Paradiso nella Divina Commedia di Dante?

La letteratura non è e non dev’essere edificante, rassicurante, morigerata: deve scuotere violentemente le fondamenta delle nostre certezze, demolire pregiudizi obsoleti e generare nuove visioni; le sue parole devono incidere solchi imperituri nel nostro sentire, svestire ogni decenza, sfrenare il pianto all’apparir del vero.

Il magnifico incipit del romanzo Anna Karenina di Tolstoj (Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo) suggerisce quello che la letteratura nella sua espressione più alta diventa per i suoi fruitori: lo specchio spietato e lucido attraverso il quale guardiamo e vediamo noi stessi per ciò che realmente siamo, nudi nelle nostre imperfezioni, disperati in lotta col proprio destino. Le famiglie felici non interessano a nessuno, non parlano alle nostre coscienze, non smuovono le nostre viscere.

La letteratura tra oralità e scrittura

C’è un secondo elemento sul quale soffermarsi: l’oramai noto ragazzino, immaginato da Nabokov in un tempo e contesto sociale arcaico, non scrive ma urla a gran voce di aver visto il lupo: storicamente, la letteratura ha origine nella narrazione orale e assume in epoca assai tarda la forma di racconto scritto. In Occidente i poemi omerici appaiono soltanto nel VI sec. a.C.

Noi abbiamo in mente il lavoro dello scrittore come qualcosa di solitario mentre nell’antichità il racconto era legato essenzialmente all’oralità e a una dimensione rituale che assolveva funzioni di grande e insostituibile valore sociale, educativo, culturale. Raccontare storie è, dalla notte dei tempi, un’attività necessaria: da millenni la tramandiamo nella sua forma sia orale che scritta.

PRESTO SAPRÒ CHI SONO: a che serve la letteratura?

Siamo giunti alla fine di questo breve, avvincente viaggio.

Il nostro “Cicerone” pone la domanda delle domande: a che serve, insomma, la letteratura?

La risposta, apparentemente semplice, arriva nello stile al quale Nicola ci ha abituati; è schietta, quasi provocatoria nella sua ridicola banalità: la letteratura non serve a niente.

Non risolve questioni pratiche; non serve ad arricchirci o a guarirci se siamo malati; non ci aiuta a far tornare un grande amore né a scagliarci contro i mali del mondo per risolverli.

La letteratura ha un passo più breve ed uno più lungo di così.

Il senso della letteratura

Per la letteratura è più importante comprendere che spiegare. Non ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato: non è una direttiva di chiesa o di partito; una chiamata alle armi, neppure quelle ideologiche; non pretende di mobilitare le masse o rovesciare governi. Può sortire simili effetti ma, se questi si verificano, sono da ritenersi liberi e indipendenti.

All’indomani della pubblicazione del romanzo I dolori del giovane Werther si registrò un’impennata di suicidi, ma incentivare questa pratica non era stato certo l’obiettivo perseguito da Goethe quando lo scrisse. Né Thomas Mann, suo degno erede, poteva prevedere che la decadenza dei vecchi valori della borghesia tedesca e della società europea e occidentale descritta nel suo La montagna incantata, pubblicato nel 1924, preannunciasse profeticamente l’avvento del Terzo Reich dopo la caduta della Repubblica di Weimar, con tutta la progenie di mali che ne discese.

Kafka fu altrettanto inconsapevole degli orrori che la storia avrebbe prodotto quando scrisse La colonia penale: non immaginò che tutte e tre le sue sorelle sarebbero morte nei campi di sterminio nazisti nella Polonia invasa e conquistata da Hitler.

Ma sì, proprio lui aveva trovato la metafora in assoluto più potente per rispondere alla domanda sul senso della letteratura: un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.

La funzione vicaria, terapeutica e trasformativa della letteratura

Ne I sommersi e i salvati Primo Levi allude alla funzione vicaria che un’opera letteraria può assumere: testimoniare per chi non può farlo o non ne ha più la forza.

La letteratura, che ha sempre accompagnato i nostri cambiamenti antropologici, può conservarci umani e aiutarci forse a trasformarci in qualcos’altro.

L’ultimo autore citato è Borges. Dalla sua raccolta del 1969 Elogio dell’ombra Lagioia estrae due componimenti.

Il primo è un racconto che vede protagonisti la biblica coppia di fratelli immortalati in un momento sorprendente: Abele risponde a Caino di non ricordare più chi dei due abbia ucciso chi. In pochissime righe viene distillato un insegnamento destinato a durare nei secoli: perdonare significa, necessariamente, dimenticare.

Il secondo e ultimo frammento viene estrapolato da una poesia, e ci saluta così:

Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord,
convergono i cammini che mi hanno portato
nel mio segreto centro.
Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglia e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e di tutti gli ieri del mondo

(…)

Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

Visto il 15 marzo 2023 al Teatro Bellini di Napoli

Presto saprò chi sono di Nicola Lagioia

Crediti: foto di Chiara Pasqualini

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