‘Geniale’ era stata la prima parola venuta in mente quando nell’ormai lontano 1969 vidi, nell’affascinante location della chiesa di San Nicolò a Spoleto, l’Orlando Furioso: la stessa reazione ho avuto al termine della scena in cui Henry Lehman (bravissimo Massimo De Francovich) sbarca a New York. Quella figura eretta vestita di nero con le scarpe nuove (conservate apposta per quel giorno e quel momento) che si staglia in piedi sullo sfondo luminosamente grigio con a fianco la vecchia valigia piena di ricordi e di speranze non è solo l’ebreo che ha abbandonato casa e famiglia a Rimpar (in Germania), ma raffigura milioni di uomini e donne che in ogni epoca hanno dovuto e devono abbandonare affetti, abitudini, certezze… compiendo un viaggio verso l’ignoto per inseguire il sogno e la speranza di un futuro.
Questo l’inizio folgorante di Lehman Trilogy (a Milano, al Piccolo Teatro Grassi fino al 31 maggio 2015) – il capolavoro con cui Luca Ronconi ci ha lasciato – quasi simbolo e sintesi di quella concezione, perseguita per tutta la vita, del Teatro come ricerca e proposta di pensiero che prescinde dalla soggettività dell’autore o del regista per acquisire un’oggettività con cui rapportarsi allo spettatore attivo quale input per i propri ragionamenti.
L’ammirazione per questo grande regista – che la storia consacrerà come una delle personalità più elevate e complete del Teatro contemporaneo – non deve, peraltro, far dimenticare il decisivo contributo di Stefano Massini, quarantenne autore del testo, che ha saputo compiere il miracolo di rendere comprensibile l’evoluzione, anzi lo stravolgimento dei concetti sui quali in questi ultimi centocinquanta anni si è basata l’economia e i motivi per cui i focolai di crisi hanno effetti drammatici anche in Paesi tra loro lontani.
In altri lavori Ronconi aveva affrontato temi economici (Compagnia degli uomini e Lo specchio del diavolo tra i più recenti e coinvolgenti), ma in Lehman Triology l’economia (con le sue conseguenze) non è il solo tema, ve ne sono, infatti, altri ‘seminati’ nella mente dello spettatore: le pratiche religiose come motivo di memoria e appartenenza, il rapporto religione/denaro e la sparizione dell’etica riferita alle proprie azioni (la serie di suicidi di agenti di Borsa nella crisi del ’29, serie che certamente non si è verificata tra i trader in occasione di quella del 2007/2008) sono chiavi di lettura che Ronconi con la sua grande sensibilità ha evidenziato con forza anche se a volte in modo apparentemente sorridente.
L’opera è, infatti, sorridente e scorre assolutamente lieve sia se si assiste alle due parti (Tre fratelli e Padri e figli) in un’unica soluzione, sia se si opta per due serate successive: è Teatro allo stato puro in cui il fascino della parola domina la scena grazie anche a un gruppo di attori eccezionalmente bravi nel rendere i diversi caratteri e nel sottolineare le differenze che le stesse attività hanno con il mutare dei tempi.
La storia dei Lehman è anche quella di 150 anni di capitalismo nei suoi aspetti sia positivi, sia negativi cosicché il crollo della Lehman Brothers (Alabama 1850 – New York 2008) sembra quasi segnare la fine di un’epoca e di una concezione. Nuove regole lentamene emergono, così come dopo la crisi del 1929 (da cui la Lehman era uscita indenne) il governo statunitense aveva imposto quei vincoli di cui si lamenta il giovane Robert (un misurato Fausto Cabra) nei confronti del cugino Herbert (perfetto Roberto Zibetti nel ruolo di contestatore familiare e difensore degli interessi della collettività) senatore democratico. È il capitalismo selvaggio, infatti, che prima o poi ‘scoppia’: nel ’29 rompendo l’equilibrio della Borsa (l’equilibrista Solomon Paprinskij cade dal filo per la prima volta), nel 2007/2008 scoppiando la ‘bolla’ di una speculazione basata sul vorticoso giro di capitali virtuali.
La pièce fa capire (più di ponderosi trattati) allo spettatore l’evolversi del capitalismo e delle sue professioni, come per esempio quella del ‘mediatore’ da come la illustra Mayer Lehman (un Massimo Popolizio di incredibile bravura) quando l’inventa chiedendo al futuro suocero la mano della figlia.
La Lehman Brothers era, in realtà, morta prima di quell’11 settembre 2008 in cui i sei Lehman che si erano avvicendati alla presidenza sono in attesa della telefonata fatale. Era ‘morta’ anni prima quando – testimoniando la fine del capitalismo familiare – al vertice non vi era più un membro della famiglia, ma due estranei di cui il secondo un trader d’assalto (la più recente personalizzazione del capitalismo selvaggio).
Lehman Trilogy ha un altro grande pregio: far capire a tutti che in realtà dietro al capitalismo non vi sono solo soldi, ma anche intuizione, impresa, organizzazione, tecnologia, mercato e talenti e che la forza di quello americano è nata da un popolo formato da una pluralità di culture e di razze, provenienti da molti Paesi. Gli Stati Uniti sono divenuti una potenza grazie a questi contributi ed è quindi una tragica miopia per i nostri vecchi Stati europei chiudersi nella paura dell’immigrazione.
Molto resterebbe ancora da dire su questo straordinario lavoro caratterizzato da una serie di grandi intuizioni del regista tra cui – oltre alla semplice ma incisiva scenografia che pur catturando l’attenzione non la distoglie dai personaggi e dalla parola – la doppia valenza dei vari Lehman: protagonisti prima, narratori delle vicende dopo morti e i sogni come preannuncio degli eventi.
Non sarebbe però giusto chiudere queste righe senza ricordare le interpretazioni di Fabrizio Gifuni (un irruento Emanuel) e Paolo Pierobon (il razionalissimo Philip, figlio di Emanuel): per entrambi da manuale è il racconto della scelta della moglie.