LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO @Teatro Arena del Sole: un’autopsia concettuale

Dal 14 al 16 febbraio è andato in scena all’Arena del Sole il nuovo lavoro del regista bolognese Claudio Longhi, erede della cattedra di Istituzioni di Regia presso il dipartimento Discipline dello Spettacolo, precedentemente detenuta dal celebre regista e drammaturgo italiano Luigi Squarzina.
Lo spettacolo, seppur avvalendosi dell’originale drammaturgia curata dallo scrittore Paolo Di Paolo, lascia inalterate le fondamenta narrative e tematiche del film di Elio Petri (“La classe operaia va in paradiso”, 1971).
Concludiamo la nostra analisi, cominiciata con il pezzo di Riccardo Canzini, sulle pagine di Gufetto-Bologna …

Lulù Massa, diligente operaio milanese, è l’emblema della cieca accondiscendenza nei confronti di un perverso sistema, la cui unica legge è lo sfruttamento di uomini ridotti a strumenti di mera manodopera: odiato da tutti i colleghi, elevato a modello di efficienza da tutti i padroni. A seguito della perdita di un dito a causa di un incidente in fabbrica, Lulù ha una pirandelliana epifania: il lavoro, meccanico e alienante, ha soppresso la sua dignità di uomo, privandolo di un’identità.

Uno spettacolo tra cinema e teatro
Di fronte alla trasposizione teatrale di un soggetto cinematografico sorge spontanea una questione: come mettere in relazione queste sfere tanto marcatamente distinte? Il regista aggira questo primo scoglio individuando un didascalico tragitto che percorre in modo rigoroso e sistematico: lascia che i due linguaggi convivano pacificamente sulla scena, senza contaminarsi e senza interagire, per non incappare in uno stucchevole ibrido sperimentale.
Conscio, appunto, del rischio di produrre un poco credibile surrogato di un prodotto cinematografico, Longhi alterna teatro di parola a lacerti audiovisivi, oltretutto integrando con una serie di opportuni riferimenti romanzeschi. Vi si possono riconoscere senza esitazione sprazzi di aspro verismo verghiano, l’agile asciuttezza dei romanzi di Pavese, l’incedere minuzioso ed esaustivo delle prose di Volponi e l’uso di gerghi e dialetti in atto presso alcuni lavori neorealisti di Calvino. Gli elementi che Longhi conserva di questa tradizione letteraria sono essenzialmente due: i personaggi popolari che vi abitano e il racconto di vicende di vita vissuta. D’altra parte la funzione etica e la volontà didattica di buona parte di quella produzione letteraria vengono strumentalizzate in nome di un’indagine teorica riguardante le potenzialità dei linguaggi in questione.

I personaggi dello sceneggiatore e del regista
Da qui la scelta di mettere, accanto ai protagonisti, i personaggi dello sceneggiatore e del regista, caricati di tre compiti: raccontare il concepimento e l’accoglienza del film, sviscerarne le molteplici questioni affrontate e, in ultima battuta, dotare lo spettacolo di passaggi meta-teatrali.
Il personaggio-regista e il personaggio-sceneggiatore giustificano i toni grotteschi, talora caricaturali e buffi, attribuendo questa scelta alla volontà di dipingere un affresco che fosse rappresentativo di una determinata società in una determinata epoca e non, al contrario, meramente dolente e recriminatorio.

Solitudine di massa e solitudine del singolo
Lo spettacolo di Longhi si adegua a questa finalità: lo scopo primo è restituire una lettura interpretativa di un’epoca di furori e laceranti contraddizioni. I due punti su cui si insiste oltremisura sono: l’atroce relazione fra uomo e macchina, protesi senza la quale questi è nullificato, e le tangibili contraddizioni interne alla sinistra, disordinatamente scagliata contro un sistema costrittivo. Questa riflessione, veicolata attraverso un ritmo oltremodo martellante, è legata all’intima carenza di umanità che vige in ambo i lati. Per sopperire al becero sfruttamento da parte dei padroni e limitare l’annichilimento dell’uomo a causa della macchina, poderose masse di studenti, furibondi e farisaici, palesano un fanatico impegno sociale e una farsesca militanza che ben presto rivela la sua natura visceralmente ipocrita.
Lo spettacolo insiste molto nel mostrare le vuote, vacue e inconcludenti chiassate di gruppi uniti esclusivamente in nome di un ideale solo teorico; in realtà più soli che mai.
Solitudine di massa e solitudine del singolo: del protagonista, Lulù Massa, viene ricostruito il percorso interiore, inscindibilmente legato al contesto storico e culturale. Incontri, speranze, palliativi, ire e slanci emotivi gli si offrono come valvole di sfogo o spunti di introspezione, fino a consentirgli di giungere a una più matura consapevolezza, ma non lo salvano da una vita borderline fra alienazione e follia. Due sono le direttrici seguite dall’interprete per esprimere la propria condizione: calcare sulla meccanicità e sull’automatismo dei gesti in fabbrica e adottare tonalità grottesche e buffe, talvolta innaturali.

Le interpretazioni
Anche su questo Longhi lavora per affinità anziché per opposizione; l’altro problema da aggirare è il come porsi in relazione con i tre “mostri sacri” che abitano il film di Petri: Gian Maria Volonté, Mariangela Melato e Salvo Randone. La scelta fatta per il primo vale anche per gli altri due: lasciare che restino quasi del tutto inalterati toni, gesti e battute in modo da non suscitare prevedibili, seppur comprensibili, polemiche basate sul confronto fra interpreti.
Riesce con il personaggio di Lulù Massa ed è addirittura apprezzabile nel caso del Militina, operaio destinato a finire in manicomio i suoi giorni, acutamente affidato ad un’attrice al fine di attribuirgli un inquietante carattere androgino. Invece non riesce ad ottenere il risultato sperato con il personaggio di Lidia, scocciata amante di Lulù: ne vien fuori un goffo duplicato della recitazione calda e passionale della Melato.
Attraverso i tre personaggi menzionati Longhi ricrea una dimensione intima ed individuale, alla quale si premura di affiancarne una di massa. Gli altri personaggi, almeno macroscopicamente, svolgono un unico ruolo: rappresentare una “coscienza di classe” collettiva e compatta, contrapposta alla frantumazione prodotta dalla logica del capitale. In questo senso il lavoro di Longhi riesce nel proposito di offrirsi come opera dicotomica: individualità e collettività, lettura dell’età contemporanea attraverso l’indagine di un’epoca trascorsa. Muovendosi fra questi poli, l’operazione risulta chiara e ben definita nei suoi intenti, ma d’altra parte affatto versatile nel muoversi in un terreno tanto ampio.

Le critiche in scena
In una scena, seduti in platea come spettatori, alcuni attori iniziano una conversazione ping-pong che ripercorre punti di forza e carenze riconosciuti nel corso del tempo, da pubblico e critici. Il caso vuole che le stesse debolezze evidenziate siano le medesime ravvisabili nello spettacolo di Longhi: tanto meditativo quanto, a tratti, troppo intellettualistico; talvolta eccessivamente marcato in un’accalorata enfasi recitativa al punto da sembrare, come affermava Goffredo Fofi per il film, gigione e artificioso e, in prima istanza, sovraccarico in senso lato. Per leggere il dramma della classe operaia di ieri attraverso la mancanza di coscienza di classe oggi, e viceversa, il regista imbastisce un vastissimo tessuto di citazioni, richiami, riflessioni critiche, nessi; alterna inserti audiovisivi e coreografie teatrali, concedendosi di tanto in tanto digressioni puramente storiche; spazia dal neorealismo alla commedia, lascia che toni tragici e satirici si susseguano di volta in volta in uno sfavillio di diversi dialetti e svariate tonalità; infine, affianca l’inebriante razionalità delle melodie di Vivaldi alla delicata amarezza di alcune canzoni dell’Italia degli Anni Settanta. La lunghezza dello spettacolo – quasi tre ore –, seppur necessaria per contenere tutti gli elementi citati, risulta eccessiva e comporta inevitabilmente un calo di attenzione dello spettatore, proporzionale all’affievolimento della tensione attoriale.

Un’operazione di carattere laboratoriale con qualche lieve sfumatura sperimentale
È notevole la discrasia fra il primo e il secondo tempo dello spettacolo: da momenti corali intensi ed efficaci accompagnati da dialoghi concitati e incalzanti, atti a trasmettere il tormento di quella generazione di lavoratori, ad un logorante e monocorde dispiegarsi di battute meccanicamente ripetute e scevre da qualsiasi ritmicità.
Ad indorare la pillola una scenografia non troppo elaborata, ma versatile e di indubbio impatto: più delle prolisse e ridondanti riflessioni è questa, accompagnata da un’eccezionale miscela cromatica di stampo espressionista, a creare la connessione fra antico e moderno, a costituire la gabbia fisica e psicologica che unisce e al contempo divide i personaggi, a narrare follia e disperazione, ad inglobare tutta una serie di gesti nevrotici e compulsivi e, soprattutto, a sviscerare due epoche secondo il regista tanto lontane quanto tremendamente affini.

Non è facile tirare le file su questo spettacolo tanto lineare quanto complesso. In termini generici è possibile descriverlo come un assemblaggio organico e lineare di singoli spezzoni, arricchito da intermezzi talvolta più leggeri – musicali – talvolta più gravi – critico-riflessivi –. Ne vien fuori un’operazione di carattere laboratoriale con qualche lieve sfumatura sperimentale, a tal punto preoccupata di inglobare l’elaborato pastiche teatrale e cinematografico in una bolla concettuale da dimenticare le esigenze pratiche dello spettatore: uno spettacolo “teorico” eccessivamente massiccio e tedioso che, chiudendosi un’ora prima, avrebbe sicuramente valorizzato maggiormente l’impegnato messaggio.

Info:
liberamente tratto dal film di Elio Petri

sceneggiaturaElio Petri e Ugo Pirro

di Paolo Di Paolo

regia Claudio Longhi

scene Guia Buzzi

costumi Gianluca Sbicca

luci Vincenzo Bonaffini

video Riccardo Frati

musiche e arrangiamentiFilippo Zattini

regista assistenteGiacomo Pedini

assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios

conDonatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

direttore tecnico Robert John Resteghini
direttore di scena Gioacchino Gramolini
macchinisti Marco Fieni, Riccardo Betti
capo elettricista Tommaso Checcucci
fonico e tecnico video Alberto Tranchida
sarta Eleonora Terzi
amministratrice di compagnia Yumi Suzuki
scene costruite nel laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Marco Fieni (costruzioni in ferro), Sergio Puzzo, Riccardo Betti
scenografo decoratore Lucia Bramati
costumi confezionati da Bàste sartoria
grafica AMS Lab
si ringraziano per i materiali di studio e iconografici Fondazione Cineteca di Bologna, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Fondazione MAST
si ringrazia Paola Pegoraro Petri
si ringrazia Aglaia Pappas per la presenza in audio
si ringrazia il Gruppo Editoriale Minerva RaroVideo
si ringrazia il Centro Storico Fiat
produzione EMILIA ROMAGNA TEATRO FONDAZIONE

foto di scena Giuseppe Distefano

una produzione diLa classe operaia va in paradiso • Produzione Emilia Romagna Teatro

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