All'interno del Festival “Teatri di vetro 2018” presso il Teatro India, Serena Balivo e Mariano Dammacco offrono agli spettatori la piéce INVISIBILE, ossia, come promette la sinossi: racconti, letture, ascolti e piccole azioni sceniche. Una pièce che parla del teatro e di chi lo fà.
In una rassegna così ricca e multiforme di offerte artistiche, che include oltre la prosa anche la danza (come ulteriore espressione artistica ed espressiva) non poteva mancare nel progetto creativo di Roberta Nicolai (Direttore artistico), un lavoro che avesse per protagonista per antonomasia al centro del tutto e del palco il Teatro e quel lavoro estenuante dell’attore, che battuta dopo battuta, movimento dopo movimento, porta alla messa in scena. Invisibile o meglio appena percettibile è la strada o le strade che gli attori percorrono durante quella fase prima embrionale e prima di arrivare al parto. Quelle stesse strade o alcune, verranno abbandonate, cassate; si percorreranno nuove strade più facili o più tortuose, perché quello che importa davvero non è il tempo che ci vorrà ma la qualità del viaggio e la meta. Dammacco usa una simbologia che non lascia dubbi: l’Iceberg, il pubblico vede la punta, sotto c’è il resto ed è la parte più ingombrante.
Nella sala intima del Teatro India il pubblico viene accolto da una scenografia essenziale, voluta, perché qui è l’attore e la sua fatica che fanno da scenografia e devono riempire la scena. Dammacco esordisce leggendo e interpretando a lume di candela, quasi a denunciare da subito che da lì in poi il rapporto tra l’attore e il pubblico si farà sempre più intimo, come una cena dove l’atmosfera distende i pensieri e li inclina alla confessione. Non c’è reticenza nel testo del drammaturgo: si ammettono, confessano i toni cupi che hanno sempre accompagnato la drammaturgia della compagnia. «Era una notte buia e tempestosa» o al massimo, per attenuare i toni: «Era una notte di natale… buia e tempestosa!». Oppure c’è umiltà in Dammacco, quando dopo aver menzionato i premi della Balivo, riporta quell’odiosa frase che si è sentito dire da sempre «Mariano, si va in scena: mi raccomando non fare danni».
I due di presentano alla platea come un fumetto, assumono i toni vivaci e colorati del “caratterista” di mestiere. Balivo strizza l’occhio a Chaplin o forse no, ha una mimica artrosica che rapisce e rende grottesca la sua perfomance. Il tono è poi accentuato da una recitazione lenta, innaturale, dove parola e silenzi sono alla pari. I gesti accompagnano le battute pungenti d’umorismo. La mimica tutta surclassa la recitazione e suscita il sorriso della platea. C’è qualcosa di artificioso in Dammacco che alla fine si scopre essere la Balivo in un abile gioco d’illusione. Dammacco si presenta anch'egli grottesco nell’interpretazione del figlio che ha deluso il padre per quella sessualità mai accettata e per quel nipote agognato mai dato, come dev’essere in una certa cultura del sud, attenta soprattutto alla continuazione della stirpe.
L’atmosfera che si respira è quella del malessere che accompagna non solo l’attore ma chi questa vita può e deve vivere. La pièce è animata di morte e fantasmi: la sorella che lascia il figlio, i genitori come un grave presagio che si avvera la mattina stessa, Stanislavskij e il monito dettato dal suo metodo come la spada di Damocle sul piccolo attore.
I costumi sono giusti. Le luci rette da due trespoli che non rendono giustizia alla messa in scena. Gli attori usano un microfono ad archetto che spesso perde il segnale e disturba, distrae: allontanando lo spettatore dalla finzione d’obbligo che il Teatro deve suscitare. La sala è modesta di dimensioni, quindi avremmo preferito sentire la viva voce degli attori probabilmente insicuri e abituati al sostegno del microfono. Gli attori, eccetto la mimica, non conoscono la dizione: Balivo chiude troppo e tutto ma a volte cade in intercalari pugliesi o del sud. Lo stile telegrafico, volutamente innaturale di interpretare il personaggio, non ci svela a pieno le sue doti. Dammacco apre troppo e non si preoccupa neanche quando leggerà frasi lapidarie che richiederebbero invece una buona pronuncia, scevra di contaminazioni dialettali. Lo richiedono perché lette qui in italiano, non perché regola universale. Notevole ed emozionante il monologo di “lei” dunque di Dammacco quando racconta il sogno: lo interpreta in dialetto, e qui si sente più a suo agio ed emerge l’attore vero o verosimile. Molte parti della pièce sono lette, non c’è memoria, qualche volta si scivola in errore come di chi ha letto per la prima volta il testo; questo ci dispiace perché ci sembra che “Invisibile” sia solo il figlio minore de “La buona educazione”. Il peduncolo di un altro lavoro sul quale gli attori forse hanno dedicato più attenzione. Il dubbio ci viene anche dal fatto, evidente, che non ci sono dialoghi, solo monologhi: i due attori si toccano solo con lo sguardo e una coreografia che rapisce per bellezza. Quindi in “Invisibile” c’è contenuto, c’è poesia, ma viene purtroppo offuscata da alcuni difetti, molti tecnicismi trascurati, che scoraggiano un parere pienamente positivo che avremmo voluto dare.
Info:
TEATRI DI VETRO 12^ edizione
festival delle arti sceniche contemporanee
direzione artistica Roberta Nicolai
13 – 19 dicembre 2018
Teatro India, Roma
Biblioteca Marconi