Hanno rapito Moro! @ Macabor Editore: un viaggio nel giorno più nero della Repubblica

Il 16 marzo 1978 poco dopo le ore 9 Aldo Moro, presidente della DC, viene rapito da un gruppo armato delle Brigate Rosse. Questo è l’inizio di quello che per molti è da considerare il termine vero di quella grande ondata di ribellione, sogni e speranze nata con il Sessantotto e che aveva trovato nuova linfa vitale nei movimenti extra parlamentari  del 1977.

Salvatore la Moglie, professore di lettere e attento osservatore della realtà, nonché uno dei maggiori studiosi del caso Moro, ha scritto un libro incentrato proprio sul rapimento del presidente della DC.

Fin dall’introduzione, capiamo quanto questo avvenimento sia stato cruciale all’interno della storia italiana e non solo perché le BR rapirono un uomo politico di altissima levatura, forse il più importante statista di quegli anni, capace di essere lungimirante, indipendente, pronto a lottare contro le correnti avverse all’interno del suo stesso partito, anticomunista in modo intelligente, come lo stesso autore afferma. Quello che colpisce maggiormente in queste pagine è come il rapimento di Aldo Moro segni in modo indelebile le coscienze di un popolo intero, le divida fra chi appoggia la linea della fermezza a oltranza voluta dalla stessa DC e chi invece vorrebbe trattare con i terroristi come proponeva Craxi, fra chi ha paura e si rinchiude in casa, chi invece tenta un confronto lucido con la realtà, chi appoggia in modo cieco la strategia brigatista e chi ancora cade nel fascismo nostalgico del “quando c’era lui…”.

Gli aspetti principali del rapimento sono passati al vaglio di una critica accurata fin dalle prime pagine, dove il nostro autore pone una serie di quesiti in merito all’eccidio di via Fani, dove morirono i cinque uomini della scorta del presidente della DC. Come è possibile che sotto quel fuoco così imponente nessun proiettile colpisca Moro? Oppure, perché la scorta non aveva le armi a portata di mano ma nel portabagagli?

La Moglie pone l’accento su possibili presenze che nulla hanno a che vedere con il comando brigatista e, partendo da questi dubbi, risale lentamente e approfonditamente alla serie di eventi politici ed economici che avevano caratterizzato l’Italia di quegli anni, ricordando a noi lettori come fossimo una pedina all’interno di quella scacchiera che vedeva contrapposti gli Usa all’ex Urss, le due superpotenze che dopo la conferenza di Yalta si erano spartite il mondo per aree di influenza.

L’aspetto però che distingue questo volume dai possibili studi e saggi sul caso Moro è il fatto che è organizzato e pensato come una narrazione sotto forma di diario fatta da un giovane calabrese, Roberto, che sta finendo il liceo, che fa parte di quei movimenti della sinistra extra parlamentare che hanno smesso di riconoscersi nel PCI e che però non si riconoscono nemmeno nella strategia terroristica delle Brigate Rosse. Roberto ci aiuta a entrare ancora meglio nei fatti e negli effetti di quella giornata di quaranta anni fa, quando l’Italia tutta fu sconvolta da un atto non solo così violento ma anche improvviso e apparentemente inaspettato.

Il romanzo altro non è se non una lunga, unica pagina di diario che il nostro giovane protagonista scrive partendo dall’annuncio che un suo professore, il prof. Desantis, fa in classe: Aldo Moro è stato rapito proprio il giorno in cui avrebbe dovuto tenere il  discorso in Parlamento che avrebbe sancito l’ingresso del PCI nella maggioranza di governo e superare in qualche modo quella esclusione ormai trentennale contro qualsiasi partito comunista in un Paese occidentale.

Da questo momento, per noi lettori è un correre attraverso fatti e citazioni. Roberto ci illustra le immediate reazioni di pancia (a scuola, in strada, fra la gente comune, ma anche nel circolo culturale che lui e il fratello tengono aperto nel loro piccolo paese) e poi, in un momento di calma, nonostante i dubbi le ansie e le paure, comincia a guardare e ripercorrere gli ultimi giorni attraverso i giornali che raccoglie quotidianamente per avere sempre un modo di guardare ai fatti.

Ecco allora che sembra quasi esserci un filo sottile che preannuncia il rapimento di Moro. Dal rapimento di Sossi, il magistrato sequestrato e poi rilasciato dopo poco più di un mese dalle stesse Brigate Rosse, allo scandalo Lockheed che porterà alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone proprio nel 1978, ci sono eventi, commenti, richieste fatte da politici e non solo che tracciano una ragnatela intorno al progetto politico di Moro: Moro viene dunque invischiato in questioni ben lontane dalla sua persona, come poi verrà ribadito solo dopo la sua morte.

La Moglie, attraverso il suo protagonista, vuole farci notare come si fosse messo in moto un gioco al massacro, al discredito nei confronti dello statista democristiano, che già stava vivendo un periodo di grande tensione proprio per le sue scelte politiche di apertura nei confronti del PCI. A ciò si aggiunge anche la constatazione che proprio Moro venisse indicato come il possibile successore di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica, ruolo che in qualche modo poteva essere ancora più pericoloso perché avrebbe permesso al politico pugliese di proseguire nella sua politica, volta a favorire la trasformazione socialdemocratica del PCI, e anche di tutelare questa sua apertura attraverso i poteri che la Presidenza prevede.

Moro si delinea dunque come una figura di rottura all’interno di una società che viveva da anni nella morsa della strategia della tensione: attraverso il terrorismo nero e una politica sempre più dura nei confronti dei movimenti dell’epoca, attraverso l’ingerenza dei servizi segreti nazionali e internazionali e delle varie mafie, attraverso la manipolazione dei mass media utili a costruire il consenso al potere, si era creato un clima di paura che aveva lo scopo di fermare i movimenti e le richieste di riforma che provenivano da più strati della popolazione.

Moro appare quindi un capro espiatorio, colui che poteva essere sacrificato in nome di una ragione di Stato. Il suo rapimento e la sua uccisione dopo cinquantacinque giorni di sequestro segnano una svolta politica e morale per il nostro Paese.

Gli interrogativi di Roberto sono comuni a molti ancora oggi: perché abbandonare Moro ai brigatisti e non trattare per la sua liberazione? A chi giovava il rapimento?

Non ci sono risposte: la narrazione si ferma infatti proprio alla fine di questa lunga giornata in cui tragedia personale e tragedia nazionale coincidono perfettamente e ancora oggi sono tante le risposte che vorremmo trovare e che forse non troveremo mai, almeno non nella storia ufficiale. 

 

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