Circa 25 anni dopo il grande successo di Oylem Goylem – spettacolo cult che ha segnato la nascita del Cabaret Yiddish in cui brani musicali, canti e aneddoti si alternano a momenti di impegno civile e a riferimenti religiosi relativi sempre al popolo ebraico – Moni Ovadia presenta Dio ride. Nish Koshe (Piccolo Teatro Grassi di Milano fino al 14 ottobre 2018) che a quella sua invenzione teatrale idealmente si ricollega riproponendone umorismo, battute fulminanti e soprattutto la musica klezmer che non è sottofondo ma racconto al pari della parola.
E se da un lato lo spettatore s’immerge affascinato nell’armonia delle note degli strumenti e dei suoni di quella lingua Yiddish (sconosciuta ai più), dall’altro gli resta il rimpianto di non capire il significato dei canti per cui s’interroga sull’eventuale utilità di sottotitoli o di un foglio con i testi tradotti.
Dio ride. Nish Koshe (‘Dio ride. Così così’ è la traduzione) è uno spettacolo fantastico che supera anche il ricordo di quell’Oylem Goylem (Il mondo è scemo in Yiddish) che ha fatto scoprire al grande pubblico la bravura, l’intelligenza e l’impegno civile di quell’attore/cantante che aveva il coraggio di rivendicare la propria appartenenza al popolo ebraico (presentandosi sul palcoscenico con la tradizionale kippah) e di condannarne anche duramente – ma sempre con il sorriso e l’ironia – eccessi e deviazioni.
In quel lontano 1993, Moni Ovadia è sconosciuto al ‘grande pubblico’, ma non a chi attentamente segue quanto di nuovo e originale (ed è molto in quei decenni culturalmente vivacissimi e ricchi di idee e creatività) si manifesta nelle varie forme teatrali. Salomone (Moni) Ovadia, (giunto a Milano all’età di tre anni da Plovdiv/Bulgaria dove era nato nel 1946 da una famiglia di ascendenza ebraica-sefardita ma inserita in ambienti di cultura yiddish e mitteleuropea), infatti, muove i primi passi artistici ancora studente universitario (ha studiato e si è laureato in Scienze Politiche alla Statale di Milano). Agli inizi degli anni settanta, fonda il Gruppo Folk Internazionale (poi divenuto Ensemble Havadià) con il quale ottiene successi e notorietà internazionali, ma sempre nel mondo della musica folk. In teatro debutta nel 1984 e si afferma come attore/cantante nel 1987 quando al Teatro Pier Lombardo di Milano (oggi Teatro Franco Parenti dal nome del grande attore che di quel teatro era stato l’anima) è protagonista di Dalla sabbia-dal tempo nell’ambito del Festival di cultura ebraica.
Lo spettacolo in scena al Grassi conserva di Oylem Goylem la struttura con la voce narrante del vecchio ebreo errante Simkha Rabinovich e la scena che somiglia a una zattera – su cui sono i cinque musicisti della Moni Ovadia Stage Orchestra e il protagonista seduto tra i libri a significare che la libertà risiede nella cultura (infatti qualsiasi dittatore o aspirante tale in primis cerca di controllarla) il quale si rivolge al pubblico con quella sua voce originale (che è musica anche quando non canta) – e con la filosofia dell’errare quale simbolo dell’ebraismo visto come categoria dello spirito, ricerca costante e luce di libertà (simboleggiata dai lumi posti sulle teste dei musici e di Ovadia quando raggiungono il palcoscenico e poi collocate su questo) paradossalmente più vive quando il popolo ebraico vive in Paesi che non sono il suo. E che invece tende a perdere quando ritiene di possedere la terra (erroneamente perché questa è dell’Altissimo) e quindi la difende a tutti i costi costruendo muri (sullo schermo alle spalle dei musici appaiono il muro del Pianto e quello della vergogna voluto dall’attuale governo israeliano) che lo separa dagli ‘altri’ (i Palestinesi) cui finisce con il negare quei diritti e libertà di cui spesso in passato è stato privato. Potenti perché profondamente sentite ed espressione di interiore sofferenza le parole di condanna pronunciate dall’artista.
E qui si comprende la profonda amarezza del titolo: “Dio ride – secondo una citazione dal Talmud – per essersi intromesso nelle cose degli uomini” ma si divertiva anche con gli uomini partecipando a filastrocche, raccontini e parabole. Ora, si chiede Ovadia, come fa a ridere di un mondo in cui trionfano i muri?
Dio ride. Nish Koshe è uno spettacolo stupendo e completo: diverte e fa ridere per le battute fulminanti e le storielle raccontate, ma per chi vuole approdare a un secondo piano di lettura vi è un testo che resta nello spettatore e fa riflettere andando all’essenza dei problemi. Come non riflettere sul brano della Terra Promessa o su quello in cui il popolo ebraico esprime la volontà di avere un Re simbolo della scelta di sacrificare la diversità concessa da Dio per essere come quei popoli da cui fuggiva (divertentissimo e finemente psicologico il ritratto dei primi Re) o sul racconto del nonno che fa da cicerone al nipotino: l’atmosfera soffusa di poesia fa risaltare ancor più alcune verità anche scomode.
Mai come in questo spettacolo emerge il Moni Ovadia uomo di pace che fa della sua arte uno strumento di altissima etica per stimolare il pubblico indipendentemente dal genere e dall’età alla ricerca della giustizia e della pace – valori fondanti l’essenza della Divinità che non lancia fulmini ma dispensa amore – nella loro espressione umana e quotidiana di coesistenza indipendentemente dal colore della pelle, dalla provenienza, dalla fede professata o rifiutata, dalla ricchezza, dallo status sociale… senza costruire muri fisici o mentali, senza creare paure per le diversità e i ‘diversi’, timori che finiscono per trasformarsi in odio irrazionale e immotivato.