Nella giornata di chiusura di Più libri più liberi, è stato presentato il libro Lo spettacolo della mafia di Marcello Ravveduto, edito da Edizioni Gruppo Abele.
Oltre all’autore è intervenuto all’incontro, moderato da Giorgio Mottola, l’ex deputato Enzo Ciconte, storico della criminalità organizzata, nonché docente universitario.
Lo spettacolo della mafia è sicuramente uno dei libri più interessanti, tra quelli pubblicati negli ultimi anni, sul tema delle mafie.
L’autore, docente di Digital Public History alle Università di Salerno e di Modena e Reggio Emilia, con questo lavoro completa un percorso di studio iniziato nel 2007, quando ha scritto Napoli… Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema sceneggiata e neomelodici. Ravveduto è stato il primo a raccontare i rapporti tra camorra e mondo neomelodico e ad accendere il dibattito sul ruolo della contaminazione culturale nella costruzione del consenso sociale che la camorra napoletana è riuscita a mettere in piedi grazie al rapporto con la musica neomelodica.
Con questo ultimo libro, il discorso viene portato più avanti fino a coinvolgere il grande tema della storia della rappresentazione mafiosa in Italia, con riferimento a film, fiction, libri, musica ed anche social network.
Questo libro dimostra come le organizzazioni mafiose rompano i confini geografici, etnici e sociali sino a costruire una propria egemonia culturale.
Lo spettacolo della mafia è una guida utile al lettore per raggiungere la consapevolezza di come il mondo sia profondamente condizionato dal modo in cui si parla della mafia.
Sollecitato sul punto, Ciconte apre il suo intervento con una riflessione che è probabilmente la chiave di lettura del lavoro di Ravveduto: l’immaginario delle mafie è il risultato della somma di tre prodotti, quello che sono effettivamente i mafiosi; quello che noi pensiamo siano i mafiosi e, quindi, come li rappresentiamo; quello che i mafiosi vogliono farci pensare che siano.
La necessità di un’analisi sulla rappresentazione delle mafie, si intuisce facilmente se ci si sofferma sul dato sostanziale per cui in questi decenni la mafia non è stata sconfitta, nonostante l’offensiva dello Stato, perché si è pensato che si trattasse di un fenomeno puramente criminale, delegandone ad altri la soluzione. Ma invece è un problema culturale che incide anche sulle modalità con cui intorno a questo fenomeno criminale viene costruito il consenso.
La difficoltà che emerge dal libro di Ravveduto è proprio quella di rispondere alla domanda: in realtà i mafiosi cosa sono?
Ciconte evidenzia come sull’interpretazione della mafia giochino una serie di stereotipi e spiega che se si ha in testa lo stereotipo sbagliato del mafioso, non si riesce ad attrezzarsi per contestarlo.
Questo libro, nella sua semplicità, navigando tra film canzoni e Google aiuta a rompere la catena di raccolta di stereotipi che sono stati costruiti sui mafiosi.
E’ un volume molto ricco di dati, che danno la chiara immagine del fenomeno. Ad esempio, sfogliandolo si può scoprire che dal dopoguerra ad oggi sono stati scritti oltre 4000 libri sull’argomento mafia; dagli anni 50 oltre 300 film. Per non parlare poi delle serie tv, a partire da La Piovra, fino a Gomorra, passando anche per Narcos.
Allora viene da chiedersi come mai la mafia piaccia così tanto, al punto dii trovarsi al centro di così tante produzioni artistiche, cinematografiche e culturali.
A questo quesito risponde Marcello Ravveduto, secondo cui il racconto del male è da sempre centrale nella formazione delle società. Gli stessi giornali nascono per raccontare la cronaca nera.
Se andiamo a vedere ancora i dati contenuti ne Lo spettacolo della mafia, possiamo constatare che i libri scritti dal 1948 al 2018 su questo tema sono stati 3365 libri, la maggior parte dei quali sono su Cosa Nostra. Di questi quasi il 60% è stato scritto dopo il 1992.
I film, sempre tra il 1948 e il 2018, sono stati almeno 337, di cui quasi il 60% su Cosa Nostra e il 30% su Camorra. Ma vediamo che c’è un’altra data che trasforma la narrazione, infatti dal 2006, dopo l’uscita del libro Gomorra, le narrazioni sulla Camorra superano quelle su Cosa Nostra.
E veniamo quindi alla polemica che ciclicamente incombe su Gomorra, ossia di incitare a certi comportamenti e di promuovere la mitizzazione del boss, la quale sembrerebbe presupporre che in capo a queste produzioni culturali e cinematografiche vi sia il dovere di adempiere un compito pedagogico.
Ma secondo Ciconte questa impostazione non rispetta il principio della massima libertà nell’espressione artistica. Occorre un punto di vista laico che accetti l’esistenza di film che hanno un valore non considerato positivo da tutti.
Rispetto all’interrogativo che viene spesso posto in relazione alla serie tv Gomorra se possa o meno influire negativamente sulle nuove generazioni, secondo l’autore ognuno di noi, posto davanti al medium, ha una sua sensibilità e una sua cultura per interpretare ciò che si vede, che rappresenta la forza del rapporto tra spettatore e medium.
Dietro Gomorra c’è prima di tutto l’idea della globalizzazione del male, c’è l’idea dello spettacolo del potere, che il male da solo può produrre una narrazione e che non ha neppure bisogno del vecchio modello in cui dall’altra parte c’era il buono. Sono narrazioni importanti e si commette un errore ad inserire la moralità nel giudizio su queste. Sia perché chi produce questi contenuti fa parte dell’industria culturale e non è interessato a questi aspetti, bensì a vendere il prodotto. Sia perché, secondo Ravveduto, la maggior parte degli italiani è cattolica e vive senso di colpa sulle mafie come peccato morale degli italiani, che viene lavato via dicendo che non va fatto vedere Gomorra, quando invece andrebbe visto ragionandoci con coscienza.
Prendiamo ad esempio un’ altra serie, Narcos, in cui c’è un orientamento di base, il poliziotto che alla fine arriva ad uccidere Escobar racconta come voice off la storia. Qui è evidente la scelta precisa dell’editore di non trasformare Pablo Escobar in eroe, cosa che invece capita durante la visione di un film come Il Camorrista di Tornatore, in cui Cutolo assume la dimensione del bandito sociale. Cutolo è l’emblema della capacità di un boss di costruire una dimensione comunicativa.
Nel bene e nel male la rappresentazione produce degli effetti.
Ci sono alcuni libri e film che segnano un prima e un dopo. Un esempio è il film I cento passi di Marco Tullio Giordana. Questa è stata una pellicola di svolta perché dopo la morte di Peppino Impastato, insieme al fratello Giovanni c’era solo Umberto Santino a cercare di rianimare la memoria di questo giornalista e attivista ammazzato, che si tentò di far passare come un terrorista che si era fatto esplodere da sé.
Il film ribalta questa versione dei fatti. E lo stesso Ciconte racconta come anche all’interno della commissione antimafia di cui egli faceva parte e che all’epoca in cui I cento passi usciva nelle sale cinematografiche si stava organizzando in un comitato di lavoro sul caso di Peppino Impastato, molti deputati non meridionali furono aiutati nella comprensione del fatto dalla visione del film.
Ma è accaduto anche che alcuni film siano stati utilizzati dai mafiosi stessi per rappresentare un modello di loro stessi non veritiero, basta pensare al Padrino, padre, appunto, di tutti gli stereotipi in materia di mafia della seconda metà del 900.
Addirittura nelle prime intercettazioni eseguite dall’FBI degli anni 70 si iniziarono a sentire i boss delle cinque famiglie di New York City che iniziavano a parlare , ma anche a vestire, come Don Vito Corleone.
Durante l’incontro Ravveduto offre al pubblico in sala un’importante chiave di lettura di uno dei padri dei mafia movie: Il giorno della civetta. L’autore fa notare come nel costruire la scena principale già nel libro, da cui il film è tratto, Sciascia ponga don Mariano e il Capitano Bellodi uno davanti all’altro come in uno specchio, a porre in evidenza come la mafia sia lo specchio dello Stato. Don Mariano rappresenta un’ autorità sociale con una visione totalitaria della società, dall’altra parte c’è un carabiniere che ha fatto il partigiano. Già nel ‘64 Sciascia determina quella che sarà la retorica prevalente di mafia e antimafia cioè la riproposizione della lotta tra fascismo e antifascismo, che oggi dopo il ‘92 è diventato un criterio fondamentale dell’immaginario della costruzione dell’antimafia. Questo è servito già da quel momento in poi a connaturare l’idea di antimafia dentro le radici della Repubblica che nasce dalla resistenza antifascista. Basti pensare che l’ANPI ha da poco riscritto il proprio statuto, in cui compare la resistenza alla mafia.
E veniamo ora all’analisi più attuale contenuta nel libro, quella su la Google generation criminale, uno degli aspetti più nuovi. Grazie ad un’esplorazione del web, l’autore ha scoperto una conquista mafiosa di facebook del social network.
E’ interessante vedere come dentro i social si formi una nuova cultura criminale che diventa da reale a virtuale. Questi giovani criminali sono in grado di creare un loro immaginario che è tanto la loro idea di rappresentazione della mafia quanto un’autorappresentazione.
Sono quattro gli aspetti fondamentali di questo fenomeno.
il primo elemento è che si vestono tutti con una certa marca (Dsquare 2) e un certo tipo di abbigliamento, ostentato come elemento di élite, in continuità con l’atteggiamento del camorrista del ‘900, il quale aveva un abbigliamento esclusivo.
Il secondo elemento è l’uso di un gergo, che sui social si trasforma in emoji. Ad esempio per il concetto della fratellanza, intesa come rapporto di sangue, viene utilizzata come emoji la siringa di sangue con la gocciolina.
Terzo aspetto è quello del tatuaggio, anch’esso elemento tipico della camorra del novecento, adesso reso pubblico al punto di renderlo protagonista dei selfie.
Alcuni di questi ragazzi, hanno tatuato in petto la parola LOVE, in cui la L è una beretta, la O una bomba a mano, la V un rasoio a serramanico.
E poi una curiosità, emersa nel 2015, nella gamba sinistra hanno tatuata la faccia di Joker.
Chi ha visto il film Joker sa che questa figura richiama alcuni aspetti, evidentemente già individuati dall’ambito criminale molto prima dell’uscita del film e nei quali questi ragazzi si rivedono.
Il Joker è diventato così perché è stato maltrattato e loro sentono di essere stati maltrattati dalla società e quindi reagiscono. Il Joker quando usa violenza, ride. Il joker non ha più paura di morire, ha sperimentato fino alla più grande sofferenza dell’esclusione.
Infine, questi giovani criminali, sicuramente, non vogliono essere Batman.