Il Teatro Vascello conferma la sua capacità di selezionare spettacoli di alto livello, ospitando il Balletto di Roma che, questa volta, va in scena con una rielaborazione di Giselle totalmente fuori dagli schemi.
Grazie all’intervento di due coreografi molto apprezzati sulla scena internazionale, Itamar Serussi Sahar (Israele) e Chris Haring (Austria), impegnati rispettivamente nel I e nel II atto, sicuramente potremo aggiungere una nuova connotazione alla parola romanticismo.
Giselle andò in scena per la prima volta il 28 giugno 1841, presso l’Accademia Reale di Musica di Parigi, balletto costruito per esaltare al meglio le doti della danzatrice Carlotta Grisi (anche se noi tutti ricorderemo per sempre la nostra Carla Fracci “Nazionale”, nel ruolo di Giselle). Fu subito considerato l’emblema del romanticismo (e se state pensando ai Baci Perugina, sono desolata, ma dovrete sostituire la cioccolata con una forte dose di malinconia e di insoddisfazione nei confronti della realtà).
C’è una giovane donna, Giselle, che vive serenamente fino all’incontro con Albrecht, spavaldo e baldanzoso nobile che si diverte a prendersi gioco dell’ ingenua ragazza. Hans, innamorato perso di Giselle, prova a metterla in guardia ma… lei niente, conferma il motto “alle donne piacciono i bad boys”. Fin qui, non sembra nemmeno una trama tanto demodè: ed è quello che hanno capito i coreografi, adattando alla nostra epoca sentimenti tanto semplici e istintivi, primordiali, talvolta volutamente insabbiati, con una modernità disarmante, dato che a pensarci bene, questa realtà è davanti ai nostri occhi tutti i giorni.
La danza contemporanea offre allo spettatore, attraverso l’improvvisazione (consapevole) dei danzatori, la possibilità di decifrare il movimento in modo del tutto personale, il che lo rende attivo e partecipe. Cercare di attribuire un significato a ciò che vediamo è insito nell’uomo e l’arte avalla questa nostra tendenza con una grande classe, (classe che, nello specifico, ha accompagnato la rappresentazione in ogni momento).
Ma andiamo per gradi, o meglio, per atti.
“E luce fu” è un incipit calzante per il I atto, perché l’apertura del sipario inonda la sala di una luce che, già da sola, si presta all’interpretazione. Un cubo di rubik dai colori cangianti, fatto di corpi, anime e desideri, spiritualità e carnalità, paura, curiosità, odio e fiducia tradita: un complesso intrigo di pezzi che vanno, pian piano, al loro posto.
Nella versione originale il primo atto parla della vita tranquilla e modesta della ragazza, fatta di momenti semplici ma gioiosi. Poi, l’infatuazione, i desideri del corpo risvegliati e lo strano mix di eccitazione e paura che comportano. All’epoca dovete immaginarlo, ovviamente, espresso con garbo e discrezione, ma Itamar Serussi Sahar, a cui è stato affidato il primo atto, si è concesso il lusso di scomporre ogni segmento dell’umana psiche, attraverso i complessi origàmi del corpo realizzati dai danzatori.
L’uso del gesto e di movimenti minimal, con tutte le variazioni di intensità, hanno fatto da padrone: attraverso complessi disegni coreografici e con la drammaticità del sapiente gioco di luci, viene fuori quello che, nella primissima rappresentazione, non poteva essere affrontato ed espresso palesemente, ma forse nemmeno pensato: carnalità, sessualità, desiderio, odio, frustrazione.
Da un punto di vista tecnico, abbiamo assistito a dei virtuosismi che si alternavano con naturalezza a movimenti più semplici, gratificando gli occhi degli spettatori che così hanno avuto modo di gustarsi ogni momento. La gestione dello spazio è sempre stata molto equilibrata, con le disposizioni dei danzatori su vari livelli e un flusso di energia che viaggiava liberamente, ora disperdendosi sul palco ora concentrandosi in un unico punto, come fosse l’occhio del ciclone pronto a travolgerci nuovamente.
Anche se è un termine poco appropriato alla danza, dobbiamo dire che c’è stata una bellissima fotografia: sia nelle pose, sia nel gioco di luci capace di esaltare la semplicità dei costumi di scena e dei disegni, realizzando un connubio perfetto tra il classico e il moderno, tra l’armonia e il disequilibrio; anche a livello musicale le scelte si sono rivelate adatte al contesto, accostando ai brani originali una stridente cacofonia, che apriva uno squarcio sulle linee precise del corpo di ballo. Le rielaborazioni musicali di Richard Van Kruysdijk e Andreas Berger si potevano definire pennelli di un inquietante impressionista, che hanno trasformato la danza in acquerello.
Siamo consapevoli però che questa love story non ha un lieto fine, certezza che ci introduce al II atto e qui, signore e signori… BRIVIDI.
“Vestite da spose e coronate di fiori … meravigliosamente belle, le Willis danzano alla luce della luna sempre più appassionatamente a mano a mano che sentono scivolare via l’unica ora che è loro concessa per danzare, poiché dopo dovranno nuovamente ridiscendere nelle loro tombe fredde come il ghiaccio.” (H. Heine).
E’ il turno di Chris Haring, a mio avviso coreografo con del genio nella sua follia. Se il suo desiderio era creare inquietudine, è riuscito perfettamente nel suo intento: Creepy è l’aggettivo perfetto per il secondo atto, noir ed ipnotico, senza cadere in inutili didascalie.
Un movimento sinuoso dei ballerini è il tappeto sul quale tesse le fila della sorte di Giselle, anime in pena che pensano ad alta voce e vagano desiderose di vendetta, creature di un universo parallelo che non vorremmo mai visitare ma che dimora in noi, e ci ricorda che la morte non è una parola vuota ma una garanzia a vita.
Donne cui è stata strappata la felicità a un passo dall’altare, che danzando con cadenza ossessiva e lanciando sguardi carichi di sofferenza e risentimento, realizzano la loro vendetta trascinando gli uomini nel loro mondo infernale e agitato.
Come ha trasmesso tutto questo il coreografo? Con movimenti ricercatamente semplici e ripetitivi, di una sinistra sensualità.
Diafane e mortali, non si può resistere al loro richiamo ma soprattutto si è inevitabilmente solidali con loro, dato che il supporto audio (quando la tecnologia da un valore aggiunto all’arte, ne godiamo tutti) attualizza questo quadro e ci fa immedesimare nelle povere anime interrotte.
La danza si rivela chiaramente frutto di un’accurata analisi, i danzatori sono stati portati a “capire” i personaggi e di questo ha giovato l’intensità tanto dei movimenti quanto degli sguardi.
Hanno muscolarmente somatizzato il disagio e il dolore, trasmettendo fino alle ultime file l’odore acre del rimorso senza lasciarci intendere chi sia veramente la vittima e chi, veramente il carnefice.
Un lavoro di sinergia e di grande apertura mentale che molti teatri internazionali hanno, a ragion veduta, ospitato.
Grazie al corpo di ballo, in scena fino al 3 marzo: Paolo Barbonaglia, Francesco Saverio Cavaliere, Riccardo Ciarpella, Roberta De Simone, Monika Lepisto, Mateo Mirdita, Kinui Oiwa, Eleonora Pifferi, Giulia Strambini e Simone Zannini, per averci donato un pezzo di voi.
L’arte paga sempre.