EPT @Off/Off Theatre: la via breve per la felicità 

 Roma, una frizzante domenica invernale. 

Nell’elegante cornice dell’ Off/Off Theatre debutta la prima edizione di una rassegna molto interessante: On Stage! Festival, che ha come obiettivo la costruzione di un ponte piastrellato di arti performative, che unisce la realtà italiana con quella del teatro indipendente statunitense (newyorkese, in particolare).

Un progetto molto interessante che potrebbe aprirci gli occhi su un nuovo modo di fare arte, di concepirla e di viverla.

Con particolare riferimento alla danza sicuramente ci suggerisce di apprendere, assorbire ed applicare un concetto che per noi oggi risulta, paradossalmente, innovativo: la danza come elemento del quotidiano, da consumarsi preferibilmente sul posto, giovane ed irriverente, senza confini tra movimento e parola, tra danzato e recitato.

Su questo pentagramma variopinto il coreografo Shawn Rawls fa interagire pubblico e danzatori, 4 giovanissimi talenti che ci hanno portato a domicilio uno spaccato del loro modo di “fare danza”. 

Sappiamo però che non esistono rose senza spine, pertanto togliamoci subito i fastidiosi sassolini dalla scarpa: piccola nota di demerito, ahimè, proprio per i sottotitoli.

Le traduzioni, realizzate in collaborazione con il Dipartimento di Lingue e Culture Straniere dell’ Università di Roma Tre, probabilmente per un qualche problema tecnico, non erano sempre in sincrono o disponibili. 

Prestare attenzione alla reciproca comprensione è fondamentale, in virtù del principio per il quale nessuno dovrebbe essere escluso, mettere tutti in condizione di godere dello spettacolo, onde evitare che l’arte indossi quell’apparente e altezzosa veste “elitaria”.

Ma anche Schopenhauer sapeva quanto l’errore umano fosse sempre in agguato e non ce ne siamo fatti un cruccio, fortunatamente la capacità di comunicare va oltre il verbale.

Veniamo dunque alla danza: il breve ma intenso estratto presentato dall’Emotional Physical Theatre era suddiviso in tre momenti, introdotti sempre da un acuto intervento dell’ ideatore e coreografo.

Forse condensare tre diverse opere in così poco tempo è stato un po’ rischioso, gli elementi coreografici tendevano a ripetersi, molti (troppi) virtuosismi di gambe, poca attenzione al busto e alla variazione dell’energia.

Nella prima scena, “Clinically Happy”, la parte multimediale è stata parzialmente orfana del supporto tecnologico, la sperimentazione non è stata approfondita ma ci ha comunque dato l’idea di come si sarebbe sviluppata una performance in cui lo spettatore è chiamato ad essere anche un attento osservatore.

Molto più toccanti le sezioni seguenti, “Walk” e “The Heart”, dove i ballerini hanno potuto mettere in evidenza le loro qualità tecniche: forte presenza scenica, linee delle braccia precise e pulite, forza e fluidità nei movimenti. 

Pirouettes e contact in uno stile che richiama chiaramente l’American Ballet, momenti di perfetta sincronia alternati ad alienazione sia fisica che mentale dell’intero corpo di ballo.

La gestualità era chiara e comunicativa ma un pizzico di follia e di trasporto in più sarebbero stati graditi (deformazione professionale…Italians do it better, siamo fatti così). 

Ho visto un’espressività talvolta ermetica, che non lasciava trapelare in maniera spontanea le emozioni descritte in sinossi. Che si parlasse della dopamina che ci investe agli esordi di una relazione, o del dolore quasi fisico della fine di un rapporto vedevo pochi cambi nella velocità o nell’intensità dei movimenti e nello sguardo;  parafrasando Shakespeare “il rond de jambe della dichiarazione d’amore è stato servito freddo mentre lei andava via sbattendo la porta”.

Nel complesso, un buon approccio ad un diverso modo di concepire la danza e cioè contestualizzandola nella realtà che ci circonda.

Perché è possibile davvero non separare le due cose, basta solo aprire gli occhi e lo so, chi ha già letto le mie recensioni forse lo troverà ridondante ma io ve lo ripeto lo stesso: GENTE, ANDATE A TEATRO! 

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