Uno dei balletti più rappresentati e acclamati di Amedeo Amodio, Carmen, torna a Roma sulla scena del Teatro Olimpico. A interpretare la celebre gitana è l’étoile Anbeta Toromani, prima ballerina del Teatro dell’Opera di Tirana e nota al grande pubblico televisivo italiano.
Suo partner nella danza di amore e morte è Amilcar Moret, primo ballerino cubano, che interpreta Don José.
Lo spettacolo è “scaturito” dal sogno di una violinista che evidentemente ha appena finito di suonare la Carmen di Bizet. Il pretesto meta-narrativo però prende la vicenda dalla sua fine, la morte di Carmen. Un inizio reso con pochi elementi un quadro carico di sogno e pathos: Carmen, vestita di bianco, con la tradizionale candida mantilla spagnola che le scende sul viso, cade senza un lamento e senza apparente dolore sul lato della scena. Sulla parete della scena mobile si staglia l’ombra della donna finita. Ma pochi secondi dopo vi si sovrappone un’altra ombra, è Carmen danzante, focosa e viva.
Queste due ombre, quella di Carmen morta e quella di Carmen che danza, piena di vita, sono come le due anime simultanee dello spettacolo, ciò ne fa una scena molto ben pensata, realizzata con pochi elementi scenici. Da questo momento inizia la vicenda, raccontata dal balletto nel suo stile narrativo più classico.
Un racconto che prosegue sulla cifra dell’ineluttabilità della morte ma anche dell’irriducibile indole libera di Carmen, un fuoco che è vita e destino nefasto al contempo. In questa versione di Amodio non risulta evidente, come parte della critica ha invece voluto vedere, il conflitto tra il diritto e la volontà di libertà di Carmen e la prepotenza, la possessività dell’uomo, rappresentato da Don Josè. L’affiatamento dei pas de deux dei due amanti, le azioni sfacciatamente scostanti di Carmen che portano uomini e donne a combattersi nella gelosia, la rendono assoluta regina degli avvenimenti, la sua stessa morte sembra non avere un vero artefice, è stata resa senza violenza, senza colpi o segni di rabbia, semplicemente Carmen si rilassa priva di vita, spegnendosi nell’abbraccio fatale di Don José.
Come se fosse il suo spirito libero ad aver accettato questa fine, quella di una donna che nella vita aveva sempre scelto cosa volesse, con grazia o con crudeltà, e che non poteva che scegliersi anche il momento per morire. Molto felici i momenti corali delle coreografie, in particolare quelli danzati dai soldati, anche se a volte non totalmente sincronizzati, hanno reso il carattere scherzoso, energico del gruppo di commilitoni.
Anbeta dirige le danza di seduzione, abbandono e gelosia degli altri personaggi con grande capacità espressiva. Forti le fatidiche scene di vestizione rituale, in particolare quella del torero Escamillo, interpretato da Marco lo Presti, il quale ha presentato una danza particolare, da una parte molto virile –come vuole la tradizionale immagine del torero- ma dall’altra presenta tratti fortemente seduttivi e quasi femminili, grazie ai movimenti più sinuosi e all’uso dei movimenti della testa. Ciò l’ha posto quasi come un corrispettivo al maschile di Carmen.
La vestizione simultanea del torero e di Carmen nel suo abito bianco è accompagnata dalla presenza dello specchio, un simbolo significativo e forse una chiave di lettura in più per il dramma di Mérimée.
La nota più romantica è quella data da Micaela, interpretata da Ilaria Grisanti, che si lancia in dolci, disperate, a volte quasi patetiche danze per tenere legato a sé l’ufficiale che vede smarrirsi nel fascino adoperato da Carmen. I suoi pas de deux con Don José si muovono soprattutto su una linea, correndosi incontro e allontanandosi, in un rituale che però alla fine non riesce a tenere legato l’uomo a Micaela.
Le luci e la scelta dei costumi (di Spinatelli) hanno calcato il spore mediterraneo e caldo dello spettacolo, in un fluttuare di gonne e fiori e nel dominio dello spagnoleggiante rosso e nero