Oltrepassate le buie sagome notturne del mercato fantasma di via Sannio ci introduciamo nella sala del Teatro Lo Spazio, allestita apparentemente in maniera sobria per uno spettacolo che dalla trama appare quasi banale, ma che poi si rivela essere tutt’altro.
Lo spettacolo teatrale si intitola “TI AMO MARIA… IN JAZZ”, ha già debuttato nelle sale dei teatri nel ’90 e l’autore, Giuseppe Manfridi, lo riporta alla luce e sembra quasi una sfida.
"Ti amo", le due parole più abusate della storia della letteratura e della musica, le troviamo nel titolo associate ovviamente al nome di una donna, ‘Maria’, che a parte i richiami biblici è un nome assai comune, e qui sta la sfida, riportare dopo vent’anni in auge uno spettacolo che porta con sé il sospetto della banalità. Ma poi ci sono i puntini… e qual è l’esca della trappola? Il Jazz!
L’allestimento che sembrava sobrio, rivela con un po’ di attenzione i suoi aspetti più interessanti, e improvvisamente si comprende che quella è la sobrietà che potremmo scoprire per esempio … negli accordi al piano di Bill Evans in My Foolish Heart, ovvero tutt’altro che sobria. Ci sono due palchi, uno frontale al pubblico e uno alla sua destra, sul primo ci sono tre porte dalla forma misteriosa, una quarta è dietro ai posti a sedere, vorrebbero essere la porta della donna amata, Maria interpretata da Nelly Jensen, quella del dirimpettaio e l’ascensore, della quarta non è chiaro a dove acceda, ma tutte saranno pregne di una metafisica complessa.
Sul palcoscenico principale ci sono bottiglie di vetro vuote disseminate in quantità misticamente improbabile ovunque, sull’altro sono disseminati altrettanti fogli.
Lo spettacolo comincia senza sipari, senza alcun accenno, senza futili presentazioni o preamboli, comincia fondendosi tra una chiacchiera e un’altra degli spettatori che ancora non hanno realizzato, e un uomo salito li su tra quelle porte abbozzando un tentativo fallito di scena improvvisata con uno del pubblico. È il narratore, Marcello Nicci, che varca la soglia della porta di Maria per arrivare al posto che gli spetta, sul secondo palcoscenico in mezzo a fogli e fogli di copioni alla rinfusa, e mentre si appresta a narrare, mentre la scena prende forma dalla sua lettura del copione quasi come in creazione estemporanea, ecco che l’ “esca” fa irruzione, il Jazz, re dell’estemporaneità, tramite il fiato ben dosato nel sax di Pierfrancesco Cacace che fa la sua entrata in scena da una quinta porta di servizio lontana da ogni sguardo. Ed ecco che musica e parole vanno a delineare la scena: un ex pianista jazz che ha sbagliato lo strumento e la donna della sua vita, lei un po’ spaventata un po’ in pena, ma anche fredda spietata, eppure curiosa.
Lui è Sandro ma nel copione è “un uomo”, e quel pianerottolo su cui “un uomo” distrutto e una donna amata, dal nome biblico, consumano tutta la durata della loro tragicommedia, quel pianerottolo diventa un orrido limbo archetipico, dove si contorce un amore malato, violenza, i fumi dell’alcol, le fiamme, la morte. In questo copione gli spazi si intrecciano e si interscambiano, così come si intrecciano i ruoli drammaturgici, “un uomo” urla il suo dolore in mezzo al pubblico, sugli scalini del palcoscenico che sono gli stessi delle scale dell’ immaginario condominio, usa diverse volte quella quarta porta per attraversare spazi inconoscibili, irrompe tra i copioni del narratore e gliene affida uno, accompagnandolo sulla scena tra le bottiglie forse per fargli assaggiare per qualche istante cosa significhi essere quell’ “uomo” da lui narrato.
E’ proprio vero che le voci del jazz si muovono liberamente. Quell’amore che ai giorni d’oggi riesce ad essere difficilmente un sentimento autentico, qui non è amore, -ti amo- è il “verso di una bestia”, un verso che si fonde con quello straziante di un cane nell’appartamento del dirimpettaio, il quale non si vede da giorni e che sta lasciando morire la sua bestia di fame, non molto diversamente di come fa Maria con Sandro.
Quando il cane finalmente non si sente più abbaiare e “un uomo” irrompe in quella casa chiusa a chiave, come non è riuscito a fare con la casa e col cuore della sua amata, quell’uomo raccoglie quella creatura morta e la chiama Chet, come il grande poeta della tromba Chet Baker, ma qui Chet ha sempre abbaiato coi versi del sax del demiurgico Cacace, forse aveva sbagliato strumento come Sandro. E sembra essersi arreso anche lui, Sandro, anche quando finalmente quella donna, che si era fatta un’altra vita lontana da lui, finalmente gli apre uno spiraglio. No non è uno spiraglio, è una richiesta di aiuto, ma ormai di “un uomo” non rimane che la salma. “Forse vi odio a voi donne, non esistete, ho scoperto che non esistete”, così suona il requiem.
Così si esaurisce una storia dalla mitologia urbana alla quale solo il jazz può fare da colonna sonora, ma forse non si può dire il contrario, ovvero che questo spettacolo abbia la drammaturgia del jazz, manca di improvvisazione, di fantasia, e di tante altre bellezze proprie del jazz. Al contrario si può ritrovare quella drammaturgia musicale nella poesia della Beat-Generation, ai quali sarà dedicata la seconda parte della serata con letture di Gisberg e il film documentario “Bomb! Burning Fantasy” di Matteo Scarfò dedicato al poeta italo-americano Gregory Corso. Nel loro caso il jazz oltre ad esser stato di ispirazione per quei poeti ed aver donato loro le colonne sonore della loro vita, ha fornito loro la lingua e la metrica dei loro versi, avevano tradotto davvero il jazz in lingua americana.
Prossimamente al Teatro Lo Spazio
DALL'8 AL 13 NOVEMBRE
Dal martedì al sabato ore 20.30
domenica ore 17.00
MATRIMONI ED ALTRI EFFETTI COLLATERALI
Regia
Manuel Giliberti
Adattamento di Manuel Giliberti da “Salviamo le balene “ di Ivan Campillo
BIGLIETTO RIDOTTO (9 euro + 3 euro tessera) per chi PRENOTA COME LETTORE DI GUFETTO
tel.06/77076486
Una coppia borghese come tante, dieci anni di matrimonio, professore lui, casalinga lei.
Gli anni trascorsi si fanno sentire. Anna e Luigi non hanno figli e la monotonia sembra aver preso il sopravvento in un menage che non sa come re-inventarsi. E forse il tempo ha limato anche l'interesse a dar vigore ad una relazione stanca soprattutto nell'entusiasmo individuale di pretendere la felicità. Tutto si muove in un'alternanza tra un'ingombrante ipocrisia, che rende la relazione immobile, e la spietata lucidita' che ognuno di loro usa nell'analizzare le proprie personali evoluzioni che, non trovando traduzione anche in quelle coniugali, creano insoddisfazione.