SPOGLIA TOY @ Piccolo Eliseo: intervista a Luciano Melchionna

Fino al 26 maggio è andato in scena al teatro Eliseo SPOGLIA-TOY, ultimo lavoro di Luciano Melchionna, già autore e regista di Dignità autonome di Prostituzione. Abbiamo recensito lo spettacolo, composto da diversi monologhi con Susy Suarez nei giorni scorsi ed abbiamo raggiunto il regista per farci spiegare qualcosa di più su questo progetto, sui nessi fra teatro e calcio e sul significato di questo "luogo di passaggio" che è lo Spogliatoio, scelto per raccontarci brevi ed intensi attimi di vita.

Simone Romano (S.R.) – Dalla parola spogliatoi hai ricavato un inusuale gioco di parole: SPOGLIA – TOY, un luogo topico del calcio e del mondo sportivo in generale. Di che cosa si tratta?
Luciano Melchionna (L.M.) – 
Quando uno spettatore viene a vedere lo spettacolo pensa che tutto sia incentrato solo sullo spogliatoio, ma in realtà è l’azione di “spogliare il giocattolo” che mi interessava indagare. Mi venne in mente quando mi fu proposto di fare uno spettacolo sullo sport (non ci avevo mai pensato e mai ci avrei pensato) per Sport Opera, la sezione diretta da Claudio Di Palma. Mi sono sfidato e ho deciso di fare uno spettacolo proprio sul calcio che è lo sport più difficile anche più lontano da me. Quindi, vedendo gli spogliatoi in televisione che erano tutti luccicanti, brillanti, perfetti e tirati veramente a lucido ho iniziato ad incuriosirmi a questo luogo, ispirandomi. Pensavo ai giovani calciatori, che sono improvvisamente così famosi, così ricchi e così importanti, sempre sotto le luci dei riflettori, al centro dell’attenzione di milioni di tifosi e del mercato internazionale. Per certi versi sono come un aspetto dell’arte contemporanea.
La domanda mi si è palesata all’istante: “Tutto questo successo, tutta questa fama, tutti questi soldi che scotto hanno?” Sono andato a spulciare, a studiare, a documentarmi sull’argomento e mi sono reso conto che molti di loro non hanno vissuto un'adolescenza, e hanno dovuto vivere delle vite “altre”. Sono così arrivato alla conclusione che nello spogliatoio e nel campo tanti modi di essere vengono rinnegati. Ho scoperto che parecchi hanno avuto dei rapporti terribili con dei genitori che li hanno costretti in qualche modo a diventare quello che loro stessi non erano riusciti ad essere.
Sono molti quelli che, non riuscendo a vivere una vita normale e non riuscendo più a divertirsi nel fare quello che era la loro passione, ma dovendo solo vincere a qualsiasi costo, sono finiti con l’evadere da queste tremende responsabilità rifugiandosi nella droga, nell'alcol o nella depressione. Quando ho scoperto tutto questo mi è sembrato importante raccontare l’altro lato della medaglia del calcio e l'ho fatto a modo mio. Mi sembra importante raccontare quel mondo ed i suoi protagonisti, accompagnarli ognuno vicino al proprio armadietto e vederli non solo cambiarsi e spogliarsi fisicamente, ma anche interiormente e quindi far sì che, in qualche modo, si rivelino per la prima volta a spettatori voyeur.

S.R. – In genere lo spogliatoio, un po’ come la strada (cui appartenevano le prostitute di Dignità Autonome) è un luogo di transito e di condivisione dove si arriva prima di una sfida, o cui si torna dopo una sconfitta o una vittoria, in cui si condividono gioie e dolori e si è tutti uguali, a volte vestiti allo stesso modo, a volte seminudi facendo cadere le differenze di ruolo. Hai una passione per questi luoghi di transito dell’Uomo o è una casualità?
L.M. – 
L'idea del luogo di transizione mi piace moltissimo, di fatto sto anche lavorando ad uno spettacolo che tratta proprio l’argomento del transgenderismo e devo dire che mi si è aperto un mondo. Perché io credo più nel movimento che nel luogo, nell’azione che non permette in nessun modo di mettere radici o ristagnare. È così che vedo la vita. Io sono continuamente in movimento, anche troppo, e forse cerco di raccontare questo: la fatica terribile ed anche le gioie e le sofferenze di questo movimento vitale.

S.R. – La scelta di una ambientazione sportiva è dovuta al fatto che lo spettacolo suggerisce che il calcio può essere una metafora di vita o piuttosto che la vita può essere una metafora del calcio?
L.M. –Secondo me indubbiamente il calcio è metafora della vita e sono assolutamente d'accordo che anche questo sia uno dei motivi per cui ho scelto questo microcosmo per raccontare il ‘macro’ che si nasconde al suo interno. L’affresco che faccio di quello che accade lì dentro (gli spogliati n.d.r.) è solo una facciata, un aspetto della vita di queste giovani star sportive. Molti spettatori hanno compreso che non sto celebrando il loro successo, ma le loro fragilità, e mi ha fatto molto piacere. Amo raccontare soprattutto gli aspetti più negativi e nascosti dell'essere umano e lavorando per creare questo spettacolo ho scoperto come il mercato attorno al calcio riesca sempre in qualche modo a ingabbiare lo sportivo e a farlo diventare denaro, produttività, qualcosa che non è più vita. Vedi come torna poi alla fine? Non viviamo più. Non facciamo altro che lavorare e non facciamo altro che produrre e questo è un discorso che si può applicare in tutti gli ambienti dove ci sono grandi investimenti. Perché io parlo delle star del calcio, quelli che sono arrivati al top, ed è terribile: sono dei ragazzi che molto spesso, come ti anticipavo, non sono cresciuti e ti viene voglia di abbracciarli, di stringerli, di confortarli.

S.R. – Quanto hanno in comune lo STADIO e il TEATRO: sono due ambienti così diversi?
L.M. –
Il teatro e lo sport  DEVONO essere per forza diversi! Mi sono avvicinato allo sport, ma non mi sono ritrovato per niente. Dal teatro, invece, non riesco più a uscirne. Per cui, parlando per mia personalissima esperienza, ho un profondo rispetto, una grande ammirazione per lo sport perché gli riconosco un potere salvifico come il teatro, e forse è proprio questo è l'aspetto che li può accomunare, però poi il teatro ti permette di andare in zone dove lo sport non ti porta, e puoi esplorare aspetti dell’esistenza che con lo sport non c’entrano affatto.

S.R. – Ancora una volta assistiamo ad uno spettacolo interattivo. Cosa distingue questo spettacolo dalla soluzione già sperimentata con DIGNITÀ AUTONOME DI PROSTITUZIONE?
L.M. –
DADP è il mio caos personale, nel senso che è tutto quello che io vedo negli occhi degli altri, quello che mi arriva dal mondo esterno, quello che mi accade intorno, ciò che avviene nella mia testa, quello che succede alle persone che amo, quello che secondo me potrebbe accadere da un momento all'altro. È anche quello che io ritengo arte, spettacolo, magia, stupore. Ecco cos’è il mio Dignità Autonome. Cerco di dare valore agli artisti che, com’è avvenuto con alcune prostitute, ho conosciuto per strada e a cui ho dato una “casa chiusa e protetta”. Per quanto riguarda SPOGLIA- TOY rappresenta l'impossibilità di questi ragazzi di vivere la loro vita e quindi è un argomento ancora più focalizzato. Ho voluto regale agli spettatori queste giovani vite, disparate e disperate, raccontandole dal momento in cui l'allenatore fomenta i calciatori a vincere ad ogni costo la partita, fino al loro cambiarsi per andare in scena perché il campo sportivo è come un palcoscenico.

Ringraziamo Luciano Melchionna per questa intervista e ci auguriamo di ritrovare presto SPOGLIA-TOY nei teatri romani e non solo!

SPOGLIA-TOY di Luciano Melchionna | trailer from Ente Teatro Cronaca V. on Vimeo.

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