Ripensare alla scrittura, al pathos del teatro, al fascino narcotico delle immagini, al tentativo razionalizzante della critica. Ripensare al tempo, alla velocità e alla lentezza: al tempo che ci vuole, e a che cosa miriamo.
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REALE O NON REALE: L’IMMAGINE CHE BRUCIA
A teatro si va per guardare (theaomai questo significa in greco, guardare, e da lì theatron, luogo in cui si guarda, tutti lo sanno): e guardiamo, ma non solo. L’immagine che viene posta in scena ci guarda a sua volta, o ci ferisce: emana potenza, potrebbe sussurrare, come la brace di Didi-Huberman, “non vedi che brucio?” Le immagini, i corpi, le voci in scena effettivamente bruciano. Il loro bagliore, il loro movimento, non viene solo guardato, ci contagia di un pathos con cui dobbiamo fare i conti. Se lo spettacolo è particolarmente stratificato, o in bilico su un montaggio, anche concettuale, difficile da riordinare, il contagio del pathos confonde. Alcune performance, ad esempio, si strutturano su un oggi micidiale per troppa continuità. Se alcuni maestri, vedi Armando Punzo, rifiutano appositamente il contatto/contagio col reale (‘perché se vuoi riprodurre la realtà ci sono commoventi documentari’), altri, Milo Rau fra tutti, posseggono un sistema di valori e uno stile interpretativo così potenti da rendere il reale archetipico, esemplare, eterno. Se il reale però si incolla con troppa forza all’oggi (come avviene, ad esempio, in Non tre sorelle di Enrico Baraldi, recensito recentemente da Gufetto), se la distanza da frapporre fra quello che abbiamo visto e le categorie di valutazione è minima, allora la vertigine è garantita.
UN PASSO INDIETRO ALLA RICERCA DEL LOGOS

Immemor, come l’Orfeo di Virgilio, chi scrive per valutare rischia l’amnesia, la virata verso la condivisione del pathos, la rinuncia alla valutazione precisa, chirurgica, lucida. Risultiamo neutralizzati dall’empatia. Risultiamo troppo umani. Dobbiamo fare un passo indietro. Aspettare, semplicemente, che l’effetto del trip si esaurisca, come gli storici hanno atteso decenni per produrre valutazioni equilibrate dell’Olocausto che era attualità quando, bambini, lo vivevano. Solo allora sono riusciti a tracciare linee adeguate, a giudicare con lucidità. E neppure la microstoria basta. Certo, allontana il sospetto di un’operazione furbesca, del tentativo di evocare partecipazione, di fare propaganda. Ma la microstoria non è aliena dall’evocare empatia, anzi: un destino comune ci entra nel sangue. Servono, allora, a chi debba giudicare, i consigli di Kafka: “non è necessario che tu esca di casa./Rimani al tuo tavolo e ascolta./ Non ascoltare neppure, aspetta soltanto./ Non aspettare neppure,/ resta in perfetto silenzio e solitudine./ Il mondo ti si offrirà per essere smascherato/ non ne può fare a meno…” . Alcuni critici hanno ottenuto splendidi risultati da questo passo indietro, da questo recedere verso la profondità, permettendo alle loro riflessioni di maturare. Matteo Brighenti su PAC dichiara di aver scelto di non applaudire per garantirsi un’autonomia di riflessione, un’indipendenza di giudizio che gli ha permesso la creazione di un pezzo adamantino, nudo e onesto come un colpo di spada. Alessandro Toppi su Stratagemmi infila la verticale di un confronto Baraldi/Cechov che si snoda sull’incomunicabilità dei personaggi sia nel testo classico che nella resa contemporanea, riuscendo a indagare su legami insospettabili che sarebbero rimasti sommersi, certo, se non fossero diventati il precipitato formale di una riflessione seducente ed efficace a metà tra recensione e saggio. Risultati brillanti del darsi tempo. O del perderlo, solo in apparenza, per farlo esplodere poi in scintille. Lacan sostiene che la domanda fondamentale che attraversa l’esistenza sia “puoi perdermi?” In questo caso la risposta è sì: il tempo che mi sono dato non è mai perso.
LA TENTAZIONE DELL’IMMERSIONE
Ci vuol tempo, insomma, perché la passione si allontani e la precisione analitica risorga. Una lezione che ci riguarda anche in altri casi. Alcuni spettacoli non sono lineari, ma sferici: globi roteanti che a seconda della prospettiva che ci offrono illuminano fugacemente un loro aspetto, ma per un attimo: qualche grado di rivoluzione, e la suggestione è spenta: “non vedi che brucio?” Non sempre, perché il lampo è fulmineo. Richiederebbero un livello di attenzione puntinistica, sovrumana. Lancillotto e Ginevra di Giovanni Ortoleva, per esempio, è uno spettacolo (recensito qui da Gufetto) che non finirebbe mai di proporre nuovi spunti al suo critico. Si potrebbe trarre un grafico dei movimenti dei piedi nudi di Leda Kreider e del suo procedere obliquo, lungo gli ambagi del testo medievale che si snoda tra inganni e metamorfosi, tra maschere indossate e rinunciate, e la bravura dell’attrice è tale che talvolta possiamo addirittura cogliere il momento in cui la maschera è sospesa e il volto ancora splende.

Sarebbe possibile spiegarlo nelle diagonali dei movimenti di fuga e di incontro, nel fronteggiarsi affannoso in cui l’amore viene scagliato uno contro l’altro, nella resa dei corpi stanchi lungo la parete – vuoti, senza più slancio, perché tutto è avvenuto: eppure non è la fine. Provi a seguirlo nei meandri del montaggio dei testi e ti accorgi che un solo termine che hai trascurato contiene un universo. Provi a sottolinearne la circolarità e il buio e ti accorgi di aver tralasciato la linearità implacabile e le luci. Aspettare, qui, servirebbe? Forse no, forse servirebbe un’immersione profonda, una perdita di analisi, proprio il più di empatia da evitare prima. Una sola cosa rimane sicura, purtroppo: l’infallibile regola dell’irregolare….