L’INFINITO ALBERO DELL’ODIN TEATRET: EUGENIO BARBA @Cantieri Koreja

Strade Maestre è un progetto che prosegue e si nutre di altri progetti. Non è semplicemente una rassegna di eventi o spettacoli. C’è di mezzo l’arte di darsi un progetto, l’arte di pensarlo e l’arte di realizzarlo. L’arte di creare, agire e diventare artefici di una piccola rivoluzione del quotidiano. Ha luogo, e con somma cura (“perché bisogna prendersi cura di ogni singolo progetto, con amore e arte, come fosse un bambino appena nato”) ai Cantieri Koreja di Lecce, incrocio metafisico di arte e bellezza, e inizia con una settimana incantata in cui Eugenio Barba, e con lui Odin Teatret, celebrano di nuovo il loro innesto nel Salento, le radici della loro arte, le fronde dell’albero del loro indistruttibile, magico teatro. Workshop, dimostrazioni, documentari, uno spettacolo filmato. Un riappropriarsi dei sensi, della fisicità, una festa del teatro qui e ora – e sempre. Un grande, magico rito, che ha avuto luogo dal 15 al 20 novembre e che ha celebrato l’indimenticabile, verdeggiante energia del teatro – proprio oggi, ora, qui – e sempre, per sempre.

IL DECENNALE RAPPORTO DI EUGENIO BARBA CON IL SALENTO

Salvatore Tramacere, direttore di Koreja Teatro, ci spiega innanzitutto perché, illuminando i motivi e i collegamenti sottili che legano Eugenio Barba alla tradizione teatrale del Salento. Nel 1983, da giovane studente, chiede a Nicola Savarese di indirizzarlo a qualcuno che possa fornirgli dati sulle esperienze di alterazione, di trance, di stato inconsueto della coscienza. Savarese lo indirizza ad Eugenio Barba, ed il giovane Tramacere si ritrova in breve sul set dove viene girato un film, Come! And the day will be ours – e in un’altra dimensione. “Mi trovai improvvisamente a vivere un’esperienza a dir poco alterata, sicuramente lontana anni luce dalla quotidianità che avevo vissuto fino a quel momento. Il maestro celebrante di quella esperienza era Barba”. Capace di profonda empatia, ma anche rigido e severo, Eugenio Barba già nel 1974 aveva creato una fitta rete di relazioni con il Salento: a Carpignano Salentino aveva imposto la celebre ‘pratica del baratto’ e  aveva formato una vera e propria rete con piccoli gruppi, come per esempio Oistros Teatro, sdoganando la cultura profonda del territorio da qualunque provincialismo ed aprendola a nuove, inattese esperienze. Tramacere, fondando Koreja Teatro, forse non aveva idea che avrebbe segnato una via imprescindibile al ritorno di Barba in Salento: ma l’arrivo nel gruppo di Silvia Ricciardelli, attrice presso l’Odin per più di dieci anni, è stato fondamentale. Ancora una volta, Eugenio Barba ribadiva il suo nostos verso il Salento.

PRIMI GIORNI DEL SEMINARIO DI KOREJA TEATRO

Il 15 novembre ai Cantieri Koreja il Maestro, ancora, ritorna. E già il 15 novembre ha luogo la prima magia: I Wayan Bawa, uno dei maggiori interpreti di danza balinese Topeng, esegue un estratto da Gambuh, la più antica forma di danza drammatica risalente al XV secolo. Lo spettacolo, oltre a svolgersi flessuoso e scintillante come acqua e seta, ha un fine didascalico estremamente affascinante: vengono spiegate le tipologie di maschera: le maschere intere, mute, le mezze maschere, parlanti, il penasar, che deve illustrare la storia al pubblico, i bonri, clowns, che interagiscono direttamente con gli spettatori. La lezione spettacolo si conclude con una rituale sequenza di movimenti fissi e dialoghi improvvisati che apre la via all’epifania di Sidya Kharya, la divinità della danza, che benedice gli spettatori spruzzando acqua benedetta e tendendo un panno bianco come protezione contro gli spiriti maligni.

Il viaggio nelle radici orientali e sacrali del teatro continua il giorno successivo, 16 novembre, col Concerto Baul di Parvathy Baul (performer, strumentista, narratrice e pittrice). La tradizione Baul risale all’inizio dell’VIII secolo D.C. e si è evoluta intrecciando fili di buddhismo Sahajiya, di sufismo turco e di induismo bengalese: si tratta di una potente forma musicale capace di costruire veramente un’esperienza inaudita, fisica ed emotiva, onniavvolgente.

JULIA VARLEY ED IL SUO TAPPETO VOLANTE

Il 17 novembre, dopo la visione del documentario di Magdalene Romoundou Who is Eugenio Barba, ci avviamo ad uno dei vertici dell’esperienza. Julia Varley dirige Il tappeto volante, una dimostrazione di lavoro – spettacolo (lo spettacolo deve volare come un tappeto volante, ella dichiara), una raccolta dei testi da lei interpretati, appartenenti agli spettacoli realizzati dall’Odin negli ultimi trent’anni. Ci vengono donati col corredo di azioni sceniche che li accompagnavano, come la musica accompagna la partitura. Magicamente, la Varley ci mostra, e ci dimostra, come la grande tecnica e l’ispirazione di un’attrice del suo livello riescano senza dubbi a trasferire la drammaturgia dalla rigidezza della carta alla libertà estrema dell’interpretazione. “Il testo, racconta la Varley, è uno degli elementi che narrano una storia che molto spesso non conosciamo all’inizio delle prove: noi possiamo avere dei testi di partenza, solitamente poetici, che contengono molte storie e significati. Il lavoro sul testo serve ad estrarre quel che i testi dicono non solo mettendoli in scena. Molte volte le azioni fisiche sono in contrapposizione con le parole: possono muoversi nella stessa direzione, essere complementari o essere opposte. Col corpo compio un’azione e con le parole mi riferisco all’azione contraria. Quello che lo spettatore percepisce è il risultato della convivenza fra testo, azioni fisiche, intonazioni, luci, spazio, oggetti. Non è mettere in scena il testo con il corpo, è lavorare il testo per fornire, a quel che racconti con il corpo, altri elementi”. Questo evento infinitamente importante prende la mira verso la masterclass che il giorno successivo la Varley stessa, con Eugenio Barba, terranno per gli Studenti del Dams dell’Università del Salento. Sarà un viaggio tecnico e suggestivo tra i diversi livelli di organizzazione di uno spettacolo teatrale, a partire dalle suggestioni antropologiche che lo innervano (“il primo errore dell’umanità è stata la rivoluzione agricola”, provoca Eugenio Barba), fino alle tecniche quotidiane di drammaturgia organica e dinamica, energia nello spazio e nel tempo, drammaturgia del regista e dell’attore, tecnica di montaggio, percezione del regista e dello spettatore. Un momento sfaccettato e multiforme, dialogo tra Barba e i partecipanti, scandito da dimostrazioni pratiche di Julia Varley. Alla fine, per la prima volta chi ha avuto la fortuna di partecipare ha in mano un breviario eminentemente pratico e insieme emozionale e emotivo di cosa significhi e come si possa strutturare un momento di spettacolo. Un esito, veramente, grandioso.

L’ALBERO DELLA STORIA DI EUGENIO BARBA NELLA TRILOGIA DI ODIN TEATRET

E infine, 18 novembre, ecco L’Albero, il capolavoro di Odin Teatret. In prima assoluta nel 2016 in Danimarca (e l’anno successivo in Italia, proprio nei Cantieri Koreja), è la terza tappa della Trilogia degli Innocenti, un affresco di avvenimenti contemporanei che intrecciano conflitti, incubi e speranze di personaggi storici e immaginari, in azione simultanea commentata da un cantastorie. Un montaggio complesso di azioni. Entra una delle attrici storiche del gruppo, si volge verso i grossi rami disposti al centro della scena pavimentata in color grigio chiaro e si presenta: “Mio padre era poeta. Quando sono nata piantò un pero“. Ed ecco introdotta la figura centrale dello spettacolo, che fa riferimento a quello che Barba nel libretto di sala chiama “L’albero della storia“. Esso “cresce forte e morto“. E crescerà materialmente nel corso della performance: i grossi rami troveranno innesto su una base a fusto che darà forma all’albero e consentirà agli attori di salirci, agire e appendervi oggetti. Se l’attrice della prima scena incarna uno dei principi positivi dello spettacolo, il cuore vivo e amorevole, l’altro è dato dalla presenza di due monaci yazidi che nel deserto della Siria decidono di piantare un albero (sono loro a “montarlo” in scena) perché, una volta cresciuto, i suoi frutti richiamino gli uccelli, che sono tutti scomparsi. La forza simbolica dello spettacolo è evidente: un mondo crudele, costellato di guerre (ci sono i Balcani, la Liberia, la Nigeria) popolato da criminali e vittime. Sono informazioni che ricaviamo dal libretto di sala, un maestoso ipertesto, parte della stessa drammaturgia, che ci offre notizie, suggerimenti, suggestioni.

Al principio positivo si contrappone il principio negativo: ecco in scena due signori della guerra, un europeo ed un africano. Il primo è la controfigura di Arkan, la famigerata “tigre” responsabile del massacro di Srebrenica. Lo vediamo attaccare un’arringa a propria difesa, come fosse davanti ad un tribunale internazionale, accompagnato da un servile segretario, anch’egli in giacca e cravatta che in piedi, portatile alla mano, non perde neanche una delle parole del suo capo. L’altro signore della guerra è africano: ha arruolato un esercito di bambini soldato in Liberia e perpetrato stragi inenarrabili, insegnando ai giovanissimi guerrieri a uccidere e torturare “per gioco”, indossando maschere di Halloween: per rendere invulnerabile il proprio esercito prima di una battaglia è solito effettuare un sacrificio umano, impiegando come vittima uno dei giovanissimi soldati, un’inaudita Ifigenia il cui sangue dovrebbe propiziare la guerra e l’invulnerabilità. Il mito non cambia la sua carica di orrore. Orrore cosmico, sì. Ma stilizzato. La sequenza della decapitazione è condotta come una coreografia: ritrae e rende giocoso un rituale di morte, tinge di tinte crudeli e giocose l’orrore disturbante. E non è l’unica volta: quando agli orsacchiotti e alle bamboline che sono stati posti a cavalcioni sui rami vengono staccate le teste, quella che vediamo in azione, in realtà, è l’energia guerriera veicolata dalla tecnica della danza balinese del Re Gambuh: “c’è una corrispondenza tra i principi del teatro-danza balinese e la drammaturgia dell’Odin Teatret. Solo che uno è tradizionale e l’altro contemporaneo“. Questo modo di procedere fa bruciare e insieme gela l’azione; rende manifesta l’atrocità e insieme la distanzia nel gioco scenico, radice dolente e insradicabile della catarsi.

La decapitazione è una chiave di lettura. “Tutta la mia cultura è piena di teste mozzate. Le ho ammirate in tante opere d’arte nei musei che sono l’orgoglio delle capitali europee” scrive Barba nel programma. La nostra condizione umana ha un retroterra oscuro, che può concepire vere e proprie ‘macchie nere’, come appunto lo sgozzamento: ricordiamocelo, pare ammonire il regista. Gli spettatori, che vogliano o no, ad un certo punto si trovano di fronte qualche decina di teste mozzate: un cortocircuito che addensa di colpo tutto, la paura, l’orrore – la catarsi. Meravigliosa e terribile la figura della madre la cui figlia è stata decapitata sotto l’Albero della Dimenticanza: le fornisce ombra mentre vi siede sotto ed accarezza la zucca che contiene la testa della ragazza: non si può dimenticare l’orrore: e forse nemmeno si vuole. Memoria, in fondo, significa non rinunciare al possesso, non perdere i nostri ieri, le nostre motivazioni, anche il nostro dolore, che radica dentro di noi, albero infinito. Memoria non vuol dire pace, però, e la lingua della madre infelice è terribile, rabbiosa. Decapitazione, bambini soldato, bambini morti: infanzia e violenza si rincorrono nel testo. L’insistenza sull’infanzia e sul gioco rivela comunque un doppio fondo di crudeltà: i nasi rossi che gli attori portano per tutta la rappresentazione rimandano rapidi ai bambini soldato che si travestono da maschere di Halloween per le loro atrocità, come le bambole appese all’albero o le marionette dei bambini-soldato manovrate da figure in nero che evocano il profilo dei miliziani Isis. L’albero della Storia cresce, sì, in un mondo impastato di crudeltà e di dolore. Cresce e porta nutrimento a tutti gli uccelli. Di qualunque specie siano: l’innocenza antropologica, la lucidità, la visione sincera e crudele, l’infinita variegata amorevolezza del medium rituale del teatro declinato da un grande maestro è, e sarà sempre, capace di accoglierli tutti.

Desidero ringraziare qui la dott. Arianna Frattali, senza la competenza e la gentile collaborazione della quale questo articolo non avrebbe potuto essere scritto. 

Conoscenze Condivise,  il teatro come laboratorio sociale

Concerto Baul /con Parvathy Baul (India)
L’attore totale / con I Wayan Bawa (Bali)
Odin Teatret, L’albero

con Luis Alonso, Parvathy Baul, I Wayana Bawa, Kai Bredholt, Roberta Carreri, Elena Floris, Donald Kitt, Carolina Pizarro, Fausto Pro, Iben Nagel Rasmussen, Julia Varley
Scenografia Odin Teatret
Costumi e oggetti: Odin Teatret 
Testo: Odin Teatret
Regia: Eugenio Barba 

Lecce, Cantieri Teatrali Koreja, 15/20 novembre 2021

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