Abbiamo seguito lo spettacolo POPS in scena al Teatro Belli di Roma dal 4 al 6 novembre 2022, con Eleonora Bernazza e Massimo Di Michele, quest’ultimo anche in veste di regista coadiuvato da Michele Traverso e Alessandro Mannini. L’evento è inserito all’interno della rassegna teatrale Trend. Nuove frontiere della scena britannica, giunto alla sua ventunesima edizione, in programma dal 20 ottobre al 18 dicembre 2022, a cura di Rodolfo di Giammarco e sostenuto dal Comune di Roma, dalla Regione Lazio e dal Ministero della Cultura.
Contenuti
Pops. Dal libro al palcoscenico

Approda a Roma il testo POPS nato nel 2019 dalla penna di Charlie Josephine, attore e autore britannico, una produzione targata Smart It cui la platea capitolina ha potuto assistere grazie alla traduzione in italiano di Natalia di Giammarco ed Enrico Luttmann e alla regia di Massimo Di Michele, sulla scena in coppia con Eleonora Bernazza.
Vincitore di due importanti manifestazioni teatrali oltremanica, POPS è uno scorcio sulla deriva emotiva di un rapporto padre – figlia, la storia di due fragilità che di fronte al medesimo dolore cercano di reagire sopravvivendo allo stesso in maniera completamente differente e divergente, tanto da non trovare alcuna consolazione e da non riuscire ad avvicinarsi nemmeno quando i pensieri, raramente, si assomigliano tra loro.
Scoppi. Uno, due, dieci, cento, millescoppi. Questa è, letteralmente, la traduzione del titolo dello spettacolo. Come in una girandola di fuochi artificiali, la scena è illuminata dalle continue esplosioni emotive dei due protagonisti, di diversa portata ed entità, a volte cupe, altre volte più sorde, oppure fragorose e dirompenti, intervallate unicamente da un silenzio incapace di lenire e di ricomporre ciò che resta di una famiglia in frantumi.
Pops. Rancore e incomunicabilità nella relazione padre – figlia
La scena si apre su un interno domestico arredato in modo minimalista. Lui, il padre, seduto su una sedia, passa una vita inebriato e inebetito dai fumi dell’alcool, dalla musica assordante e da qualunque programma televisivo sia in onda a qualunque ora del giorno, sempre ascoltato ad alto volume. Lei, la figlia, torna in quella che era stata la sua casa sin da bambina promettendo di fermarsi solo per il tempo strettamente necessario a riprendersi da quanto accaduto. Entrambi parlano, nessuno ascolta l’altro. Tutto è troppo forte, troppo ingombrante: la musica, la televisione, il dolore. I due non riescono ad abbracciarsi, piuttosto si annusano e si studiano come farebbero i cani con gli sconosciuti. Lei cerca rifugio nella fede, lui nell’alcool. Un possibile transfer erotico aleggia tra loro. Le parole volano pesanti, spesso volgari, triviali, quali unico lessico consentito ed atto ad esprimere lo schifo verso quanto li circonda: la gente, le circostanze, la vita, il passato, i rancori mai apertamente sviscerati, l’abbandono della mamma e moglie cui non ci si può né abituare né tantomeno rassegnare. La loro è una danza macabra, dove l’unico momento di tregua è rappresentato da una riflessione condivisa sulla solitudine e sulla mancanza di gentilezza nella società, quesito che gli attori rivolgono inaspettatamente anche al pubblico, oltre la quarta parete: una domanda alla quale non vi è risposta, ma che certamente è alla base di un crescente e invalidante disagio sociale, unitamente all’assenza delle istituzioni, e causa dei sempre più diffusi problemi mentali a carico dei più fragili. La sintonia apparente tra i due si interrompe, tuttavia, bruscamente di fronte all’esigenza di dirsi realmente le cose come stanno, le verità più scomode e crude, parole che non immagineresti mai di dire ad un genitore ma che sono necessarie per non finire nel baratro con lui. L’odio, la delusione, l’amarezza per una dipendenza che sta lentamente portando un padre alla rovina fisica e psichica scoppiano veri e potenti di fronte ad una macchia su un capo intimo che la figlia non può e non vuole lavare con i suoi indumenti, per non essere contaminata anche lei. È la fine. Io non sono e non sarò mai come te, papà.
Pops. Un concentrato di dolore tra ritmi incalzanti e movimenti meccanici

La scenografia e l’allestimento scenico sono studiati in modo tale da lasciare spazio alla parola, più che all’ambientazione. Ciò che inizialmente impatta sullo spettatore è un apparato minimalista consistente in due piramidi di bicchieri di vetro poste simmetricamente agli angoli inferiore sinistro e superiore destro del palco, inframmezzati da una semplice sedia in legno e paglia.
Tale setting fa da cornice ai dialoghi tra i due protagonisti, caratterizzati da ritmi incalzanti e frenetici, spesso nevrotici e convulsi, quasi allucinatori e privi di una logica apparente, discorsi nei quali l’uno parla ripetutamente sopra l’altra senza un reale intento comunicativo.
Il tono delle parole è assordante tanto quanto la musica e gli effetti audio quasi onnipresenti, ma il vero valore aggiunto è nella particolare attenzione data al movimento scenico, figlio della scrittura gestuale di Billy Barry e Gianni Notarnicola, che nella meccanicità dei suoi movimenti studiati e calibrati è un elogio alla danza contemporanea grazie a coreografie che catturano l’attenzione della platea e fungono da transizione e da non detto in maniera efficace. Il movimento scenico è esaltato da un eccellente disegno luci, che se nelle parti dialogate vira su toni chiari e puntamenti centrali, in quelle danzate è orientato dal basso e, nel chiaroscuro che viene a crearsi con l’utilizzo di una luce più calda, rende netti e nitidi i contorni dei due attori, in un rapporto di figura – sfondo capace di ricreare quasi dei fermo-immagine molto fotogenici.
Concludiamo citando il lavoro di Marco Dell’Oglio relativo alla scelta degli abiti di scena, abbastanza semplici, chiari per Massimo Di Michele, di due toni di celeste per Eleonora Bernazza. Oltre ad essi, l’unico dettaglio sulla scena è un borsone scuro, che rimane a terra inutilizzato per l’intero spettacolo.
Pops. Il dolore e l’infelicità nei legami familiari
POPS è un esperimento drammaturgico ben riuscito, che per stessa ammissione di Charlie Josephine è nato contro ogni volontà esplicita, uno spettacolo che si è scritto da solo a dispetto di ogni ritrosia o resistenza autoriale. Un plauso, dunque, va al Trend, che si pone come un’interessante vetrina su quanto avviene in territorio britannico dal punto di vista della drammaturgia contemporanea, ricca di spunti interessanti e stimolanti.
Senza essere retorico o prevedibile, anche nel suo adattamento in lingua italiana il testo di Josephine mantiene tutta la sua forza espressiva e scuote la platea per la crudezza delle sue parole, armi taglienti di una battaglia senza fine e frutto di un circolo vizioso fatto di dipendenza, vergogna e instabilità mentale. Non c’è salvezza senza ribellione a quei legami familiari che sono o diventano disfunzionali perché incapaci di affrontare le loro criticità, diventando così fonte di dolore e infelicità per chi li vive. Le quattro mura di casa diventano così una prigione per chi ne resta vittima, nel segreto di quanto accade al suo interno, cose che il mondo, preso dalla sua indifferenza, non saprà mai. Ancora oggi, a distanza di 145 anni dalla sua scrittura, sembra risuonare in tutta la sua attualità quanto scriveva Tolstoj in “Anna Karenina”: «Tutte le famiglie felici si somigliano. Ogni famiglia infelice, è infelice a modo suo».